dicembre 2020 redazione
I falsi storici dell'anticomunismo
I falsi storici dell'anticomunismo Fabrizio Poggi Si vuole incuneare nelle menti il rifiuto “cosciente” del comunismo, l'assioma che i comunisti nella storia si sono macchiati di vari crimini L'anticomunismo è nato con il comunismo; è nato con la presa di coscienza della propria condizione da parte della classe operaia, sottoposta alla diretta oppressione della moderna classe dominante, la borghesia. Marx ed Engels cominciavano il Manifesto del Partito comunista con le parole “Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro. Qual è il partito di opposizione, che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere?”. Il comunismo faceva e fa paura: continua a ricordare alla classe borghese il destino che la attende. Nei decenni, l'anticomunismo ha assunto varie forme, è ricorso agli interpreti e ai mezzi più diversi: dai più estremi e terroristici, ai più sofisticati. L'obiettivo è sempre quello di scongiurare la presa di coscienza delle condizioni di vita e di sfruttamento da parte delle classi sottomesse e, dunque, irretire la loro aspirazione a liberarsi. La vittoria degli operai e dei contadini in Russia, nel 1917, con la creazione del proprio Stato, di un tipo del tutto nuovo rispetto alla macchina con cui la borghesia tiene sottomesse le classi sfruttate, imbestialirono oltre ogni limite le classi dominanti. Attacchi armati contro il primo Stato socialista; interventi diretti e armamento delle potenze fasciste per indirizzarle contro quello Stato; poi, falliti gli attacchi armati, costruzione di “cortine di ferro”, insurrezioni reazionarie contro le democrazie popolari, addestramento delle quinte colonne chiamate a realizzare le “rivoluzioni per la libertà”: senza sosta, il ricorso permanente alla menzogna ideologica, ora più aperta, ora più sottile. Soltanto l'obiettivo non cambia: cercare di assuefare le coscienze delle classi sottomesse alla “universalità” dell'ordine capitalista, alla sua “naturale” eternità, alla irrealizzabilità di un diverso ordine sociale, senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo. In questa campagna, fanno da sempre da stampella alla borghesia gli elementi opportunisti e revisionisti tra le file del movimento operaio: cent'anni fa i social-patrioti, poi i revisionisti, fino ai dottrinari inconcludenti attuali. Si è ormai arrivati al punto che, diononvoglia ci si azzardi a mettere in discussione la vulgata sulle cosiddette “repressioni staliniane” e il GULag: si viene subito equiparati a quelli che “giustificano il fascismo perché ha fatto anche cose buone”. A tal punto le menti sono state obnubilate dalle giaculatorie europeiste e dalla costante instillazione mediatica su “i crimini comunisti”. Pezzo forte della campagna sono i premi Nobel ai vari Pasternak, Sakharov, Solženitsyn, Gorbačëv, Aleksievič; il premio “Sakharov” ai vari “Memorial”, Oleg Sentsov o opposizione “democratica” bielorussa. Falsificazione della storia Nella campagna anticomunista, la borghesia ricorre all'aperta falsificazione della storia. Operano in tal senso, i programmi scolastici e educativi, insieme all'indottrinamento mediatico, da quello più becero a quello più raffinato. In parallelo, si ostenta capillarmente una semplificazione dell'insegnamento e una volgarizzazione del linguaggio, una loro mondializzazione per l'esigenza del capitale internazionale di uniformare le conoscenze minime atte a servire i suoi interessi. Non fanno eccezione nemmeno in Russia i manuali scolastici adottati negli ultimi decenni e i serial televisivi (equivalente dell'italico Giorno del ricordo e dei film sulle foibe) sfornati a ritmo costante sui “crimini” di GPU-NKVD: tra giustificazioni della dittatura cilena, vomitevoli condanne dei “regimi totalitari comunisti” e santificazione delle “vittime innocenti dello stalinismo”. Sembra che lo slogan della perestrojka, "Con Stalin colpiamo il socialismo, e poi con il socialismo colpiamo Lenin", sia stato fatto proprio anche da Vladimir Putin. Di recente, è tornato proprio sul ruolo di Lenin, “distruttivo per la Russia”, a proposito della possibilità, sancita dalle Costituzioni sovietiche, di uscita volontaria dall'URSS: se qualche mese fa aveva parlato di una “bomba atomica”, ora Putin è passato a una “mina a scoppio ritardato”, che oggi insidierebbe l'unità della Russia. Eppure Putin dovrebbe sapere che gli storici, sulla base dei diari delle segretarie e dei medici, tendono a dubitare che Lenin fosse stato in grado di dettare l'articolo “Sulla questione delle nazionalità o della "autonomizzazione" – come anche i famosi “Lettera al Congresso”, o “Come riorganizzare la RabKrIn” - in cui avrebbe proposto la fondazione di una Unione con facoltà di separazione per le singole Repubbliche, in contrasto con l'idea di uno Stato unitario sostenuta da Stalin. Lo slogan “prendetevi tutta l'autonomia che volete” è stato lanciato alle regioni russe da Eltsin e non da Lenin. Qualche settimana fa, Putin ha detto che “nei decenni passati e nel periodo della guerra, c'era molto di ideologico nei programmi scolastici. Oggi noi cerchiamo di ripulire i programmi da tale ideologizzazione”, cioè dalla presunta ideologizzazione dell'eroismo dei soldati sovietici. Dunque, la de-ideologizzazione della vittoria sul nazismo non è altro che de-sovietizzazione. È così che il 7 novembre si tiene da qualche anno la parata sulla Piazza Rossa, in ricordo della parata del 7 novembre 1941, ma non si dice che allora essa si svolse per celebrare il 24° anniversario della Rivoluzione d'Ottobre: si evita così di ricordare il nome di Stalin quale Comandante in capo, oppure si sentenzia che la vittoria fu ottenuta nonostante Stalin e il partito bolscevico. Scrivendo per l'americana The National Interest su "Le vere lezioni del 75° anniversario della Seconda guerra mondiale", Putin ha parlato del ruolo di Stalin nella storia sovietica e non ha mancato di infilare “i crimini commessi dal regime contro il proprio popolo e gli orrori delle repressioni"; ipse dixit. Chi ha sconfitto il nazismo In generale, negli ultimi tempi, la campagna anticomunista mondiale di falsificazione storica punta particolarmente (non solo, ovviamente) sulla passata storia sovietica e sul ruolo dell'URSS nella sconfitta del nazismo. Il 9 maggio 2020 si è celebrato il 75° anniversario della vittoria e della fine della Seconda guerra mondiale, costati ai popoli del mondo settanta milioni di morti, di cui oltre i tre quarti ai popoli di Cina e Unione Sovietica. Prima dello scoppio della guerra, le “democrazie liberali” avevano cercato in ogni modo di utilizzare il nazismo tedesco per l'obiettivo cui non avevano mai rinunciato sin dal 1917: quello di soffocare il primo Stato socialista al mondo. Scoppiato il conflitto, si erano unite - loro malgrado e non subito - all'URSS nella lotta contro il nazifascismo. Oggi, cercano di appropriarsi di una vittoria cui avevano dovuto contribuire; peraltro, in misura molto ridotta, rispetto allo sforzo militare e sociale sovietico. Così, capovolgono e stravolgono date, avvenimenti, protagonisti. Il tema, naturalmente, non è nuovo; ma la campagna “alleata” ha assunto aspetti grotteschi in coincidenza con l'anniversario della vittoria. Medaglie commemorative delle “tre potenze vincitrici” sul nazismo: USA, Gran Bretagna, Francia; apoteosi di sbarchi a Occidente che, in realtà, in assenza di adeguate controffensive sul fronte orientale, avrebbero rischiato di trasformarsi in disfatte; e via di questo passo. Solo infamie sul ruolo dell'URSS. Ma, il vero obiettivo della “campagna alleata” era già stato messo in chiaro dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019, con l'approvazione della risoluzione che vorrebbe equiparare nazismo e comunismo. L'obiettivo non è affatto, o non solamente, storico. Non per nulla, a farsi promotori del documento di Strasburgo, erano stati incaricati quei paesi d'Europa orientale che, più di tutti, videro masse intere di Komplizen e Hilfswilligen delle SS e che oggi, tra parate in uniformi naziste e celebrazioni di quegli “eroi” autori di massacri contro civili, soldati sovietici, comunisti, ebrei, tsigani, intendono dar lezioni al mondo su come “la legge vieta le ideologie comuniste e naziste”. Il fronte comunista oggi Si è insomma in presenza di una tempesta mediatica su tutte le questioni riguardanti la storia del movimento comunista, in generale, e dell'Unione Sovietica degli anni '30 e '40, in particolare. Sotto l'insegna della “informazione” e della “Storia” servite al “più vasto pubblico”, si propagandano miti che, ripetuti migliaia di volte, secondo un metodo sperimentato nella Germania hitleriana, penetrano e rimangono infissi nelle menti. In questa situazione, difficile stabilire cosa significhi oggi essere “obiettivi”. Ci troviamo da una parte del fronte, sottoposti al martellamento dell'avversario, il quale non ha mai smesso di far fuoco con le “armi leggere” e negli ultimi anni ha messo in azione anche i “grossi calibri”. L'artiglieria martella menti e coscienze, cominciando col riscrivere la storia dei comunisti, in tutte le sue pagine, non solo in Unione Sovietica, e spiana così la strada alle divisioni corazzate contro i comunisti di oggi: l'obiettivo è quello di decretare per legge il bando del comunismo e dei comunisti, e fare in modo che la coscienza “di massa” lo accolga come un “atto necessario”, dopo di che, “andrà tutto bene”. Un po' come avvenuto con la campagna avviata durante la pandemia, allorché, tramite Covid-19, si è imposta una delazione poliziesca di massa, facendola accettare alle persone come “doverosa” e “naturale”, opportuna “per il bene di tutti”, appellandosi alla “unità della nazione” attorno al tricolore, nell'abbraccio patriottico teso a pacificare lo scontro tra le classi e mettere sullo stesso piano partigiani e “ragazzi di Salò”, all'insegna di “consumatori”, “famiglie”, in cui scompare ogni differenza di classe. Cosa significa dunque, in queste condizioni, essere “obiettivi”? Significa opporre ai colpi del nemico un martellamento uguale e contrario delle nostre artiglierie “storiche”, per non essere impreparati all'attacco “politico” contro i comunisti di oggi. Si deve esser consapevoli dell'urgenza di rispondere a ogni colpo dell'avversario, sapendo che i “dettagli storici” da contrapporgli servono solo per mantenere quanto più possibile intatte le nostre forze politiche. Un attacco di classe Quello del nemico di classe non è un attacco “storico”; il martellamento delle artiglierie “storiche” del nemico di classe non è che un aspetto dell'attacco di classe cui i comunisti sono da sempre sottoposti. Di fronte all'attacco nient'affatto storico e tantomeno “imparziale”, da parte di coloro il cui unico obiettivo dichiarato è quello di tentare di diffamare il comunismo e i comunisti, per arrivare a mettere l'uno e gli altri fuori della legge borghese, restare “imparziali” significa stare dalla parte di un anticomunismo che, ormai da trent'anni, cerca di riprendere il lavoro solo parzialmente interrotto nel periodo a cavallo tra gli anni '40 e '50 del XX secolo. Lo scontro non è “storico” o “intellettuale”: è uno scontro di classe, in cui si usano anche armi “storiche” e “intellettuali”. Non si tratta di una disputa storico-accademico. Si tratta di un attacco di classe, che passa per la falsificazione della storia, e l'obiettivo è sempre lo stesso: prendere di mira la prospettiva della società socialista per cercare di eliminarla dalla coscienza della classe operaia e delle masse lavoratrici e arrivare quindi mettere fuori legge i comunisti, oggi, con il “beneplacito” della cosiddetta “opinione pubblica”. Si vuole insomma incuneare nelle menti il rifiuto “cosciente” del comunismo, l'assioma che “i comunisti nella storia si sono macchiati di tali e talaltri crimini”. Ne deve conseguire che i comunisti di oggi non possono esser diversi da quelli di ieri e siano quindi pronti a macchiarsi di crimini allo stesso modo dei loro predecessori. Se ieri i comunisti si erano macchiati dell'olocausto – ormai si arriva a dire questo: se Stalin “si è alleato con Hitler”, significa che è parimenti responsabile non solo della “invasione della Polonia”, non solo della “spartizione dell'Europa”, ma anche degli stessi crimini del nazismo: anzi, se non fosse stato per Stalin, Hitler non avrebbe nemmeno cominciato la guerra - allora “non c'è da aspettarsi nulla di diverso dai comunisti di oggi”. Questo vien fatto diventare un assioma; si insinua nelle menti, e queste accettano come un atto dovuto che i comunisti vadano messi fuori legge in quanto “criminali” come i loro predecessori. Per il “bene comune”, il comunismo deve essere abolito per legge e la massa deve arrivare a richiederlo, per la “propria sicurezza”. Così, proprio in corrispondenza con il 75° anniversario della fine della guerra, si sono accentuate le accuse all'Unione Sovietica di essere stata corresponsabile del suo scoppio, unite alle falsità sui reali artefici della disfatta del nazismo. Accuse e falsità che nascondono almeno due obiettivi, che è necessario tenere ben distinti. Da una parte, la disputa geopolitica sul ruolo della Russia moderna: su questo versante, non crediamo che Mosca abbia necessità di esser difesa dall'esterno e ci sembra anzi quantomeno zoppicante l'intreccio, teorizzato anche in certa sinistra, secondo cui “chiunque pratichi l'antisovietismo, giunge inevitabilmente alla russofobia”. Una variante di tale “teoria” è in Russia quella dei cosiddetti nazional-patrioti di “sinistra”, che esaltano forza e potenza dell'URSS, ma sono estranei al marxismo e ripetono i mantra dei nazionalisti borghesi, i quali tacciono sul fatto che le conquiste dell'URSS fossero il frutto del potere sovietico, delle scelte del partito bolscevico, di Lenin e di Stalin. Dall'altra parte, c'è invece il più becero antisovietismo, e questo riguarda molto direttamente i comunisti in ogni parte del mondo, dal momento che l'attacco alla bandiera con falce e martello issata sulle rovine del Reichstag, non rappresenta che il viatico per dare forma “legale” alla moderna crociata contro il comunismo e i comunisti. L'anticomunismo “istituzionalizzato” In questo senso, la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, è stata solo una tappa nella “istituzionalizzazione” della tesi sulla pari responsabilità di Germania nazista e URSS nello scatenamento della guerra e su un fantomatico “retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo”, dato che, già da anni, si sta percorrendo quella strada. Per un sommario e incompleto elenco di simili obbrobri, basti citare la risoluzione del 1996 su “Misure per smantellare l'eredità degli ex sistemi totalitari comunisti”; del 2006 su “Necessità di condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti”; del 2008 su “Coscienza europea e comunismo”; del 2012 su “Regolamentazione giuridica dei crimini comunisti”, insieme a tutte le sparate di paesi come Polonia e Baltici che, mentre proibiscono “ideologia e simbologia comunista”, celebrano i veterani locali delle divisioni SS e istituzionalizzano le loro sfilate. Curioso peraltro notare come quelle risoluzioni, oltre ai simboli, mirino alla sostanza dell'ideologia che rappresentano, laddove, ad esempio, sentenziano che “le proprietà, comprese quelle delle chiese, sequestrate illegalmente o ingiustamente dallo Stato, nazionalizzate, confiscate o altrimenti espropriate durante il regno dei sistemi totalitari comunisti, in linea di principio, siano restituite ai proprietari originari in integrum, se questo è possibile senza violare i diritti degli attuali proprietari”. Proprietari che, spesso, fino a trent'anni fa, rivestivano ruoli dirigenti nei partiti e negli Stati ex socialisti. D'altronde, come detto, le sparate “europeiste” incontrano un terreno fertile nella stessa Russia eltsiniano-putiniana. Come scriveva pochi anni fa il comunista lituano Juozas Ermalavičjus “Gli attacchi sofisticati dell'anticomunismo sono diretti contro lo strumento principale della liberazione rivoluzionaria dell'uomo: quella scienza che ha ricevuto una base teorica e metodologica onnipotente nella dottrina filosofica del materialismo dialettico... Guidati dal loro approccio dialettico-materialista, K. Marx e F. Engels hanno rivelato che la causa fondamentale della schiavitù umana è la proprietà privata dei mezzi di produzione”. Oggi “l'escalation globale dell'anticomunismo è fondamentalmente l'incarnazione dell'agonia generale del capitalismo monopolistico transnazionale. Gli intrighi controrivoluzionari del dominio indiviso del sistema sociale capitalista su scala globale sono oggettivamente destinati al fallimento... Il degrado sociale e spirituale della società borghese porta al completo esaurimento del suo potenziale creativo, quindi si conclude con la cessazione della sua esistenza... Gli sforzi anticomunisti della borghesia imperialista testimoniano del suo destino fatale. L'anticomunismo è la manifestazione più caratteristica dell'impotenza e della disperazione del capitalismo monopolistico transnazionale”.
maggio 2021 redazione
giustizia proletaria
Legalità borghese e giustizia proletaria Michele Michelino Non esiste uno Stato neutrale e una giustizia superiore cui appellarsi Gli operai, i proletari, i rappresentanti delle classi sottomesse, chiunque cerca giustizia in questa società si trova a scontrarsi con leggi e norme fatte per difendere i rappresentanti del potere. La società si divide in una classe che sfrutta e in una classe che è sfruttata, in una classe che domina e in una che è oppressa". Lo Stato non è altro che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra. Oggi è legale il sistema di sfruttamento, è legale la violenza di poliziotti e carabinieri che manganellano gli operai che scioperano, i NO TAV che si oppongono alla distruzione del territorio e alle opere inutili, gli studenti che si ribellano. È legale imprigionare gli immigrati nei centri di rimpatrio e arrestare chi vuole liberarli, denunciare, arrestare, multare chi si ribella al potere e alza la voce contro le ingiustizie. È legale assolvere i padroni, i manager responsabili della morte di migliaia di lavoratori e cittadini pur di massimizzare i loro profitti e condannare le vittime e le loro associazioni che si sono presentate parti civili nei processi penali a pagare le spese processuali, com'è successo nel processo della strage di Viareggio alle RLS e alle associazioni e comitati nel processo per i morti amianto alla Breda/Ansaldo di Milano. La legalità non è mai al servizio dei lavoratori né delle classi sfruttate, ma solo e unicamente a quello dei rappresentanti delle istituzioni, del potere che - a seconda delle circostanze - la cambia com'è successo in questo periodo di pandemia di Covid19 con la sospensione delle famose "garanzie" costituzionali. Per dirla con Bertolt Brecht: “Quando l'ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere", perché "la legge è fatta esclusivamente per lo sfruttamento di coloro che non la capiscono o ai quali la brutale necessità non permette di rispettarla". Ogni epoca storica ha avuto la sua legalità. C’era un tempo in cui era legale la pena di morte (oggi in USA e molti altri paesi ancora esistente), era legale possedere schiavi. Ancora oggi è legale in molti paesi imperialisti e capitalisti la segregazione e le leggi razziali, come lo è stato durante il fascismo e il nazismo (vedi Israele con i palestinesi). Se al mondo non ci fossero state organizzazioni, comunisti e ribelli che hanno combattuto e sacrificato la vita per abbattere leggi ingiuste e regimi al servizio dei padroni e del potere, saremmo ancora alla preistoria. Nel sistema capitalista/imperialista, gli interessi degli sfruttatori diventano leggi e la giustizia è al loro servizio. L’esperienza ci ha insegnato che, per ottenere giustizia, occorrono disobbedienza e lotta, non la legalità borghese. Altrimenti le cose non cambieranno mai. Noi non vogliamo la legalità che legittima lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e perpetua l’ingiustizia per i proletari. Noi vogliamo e pretendiamo la giustizia! Anche se per ottenerla sappiamo che dobbiamo pagare un prezzo. La “legalità” borghese è usata ogni qualvolta le classi oppresse mettono in discussione o ostacolano, con le lotte, la pacifica accumulazione del profitto dei capitalisti. Nel corso dello sviluppo della lotta di classe e dello scontro, quando il conflitto sociale si acuisce, lo Stato considera illegale le forme di lotta e gli obiettivi che mettono in discussione il suo potere. E a fianco dell’apparato legale di repressione - polizia, carabinieri ecc. - ha sempre usato e addestrato forze “illegali”, come i fascisti o corpi speciali da usare in determinati momenti contro il movimento operaio e rivoluzionario. La borghesia usa indistintamente entrambi gli apparati per difendere i suoi interessi. Generalmente, se il movimento operaio e rivoluzionario non minaccia direttamente il suo potere e dominio, usa la “legalità” borghese per imbrigliare e impedire le lotte che possono nuocere ai suoi interessi. Quando i conflitti sociali e di classe si acuiscono, ma non mettono in discussione il suo potere, usano l’apparato “legale” di repressione: la violenza delle forze dell’ordine contro i manifestanti e chi lotta, le manganellate, gli arresti contro chi protesta diventano “legali”. Lo “Stato democratico nato dalla Resistenza” cerca di apparire neutrale nei conflitti sociali utilizzando, attraverso la democrazia borghese per sottomettere e sfruttare pacificamente, finché può, gli operai e i proletari, facendo loro credere di essere cittadini uguali e con gli stessi diritti dei padroni e affidando in alcuni casi la repressione antiproletaria, violenta agli apparati segreti e alle squadracce fasciste. Attraverso i discorsi sulla “legalità”, presentandola come un interesse comune, di tutti, lo Stato e i governi difendono gli interessi dei capitalisti e della classe dominante con il consenso di una parte delle classi oppresse. La democrazia borghese è la forma più congegnale per sottomettere le classi subalterne, in particolare per sfruttare la classe operaia e i proletari facendogli credere di essere liberi. Per lo Stato l’unica violenza “legale”, costituzionale e giustificata, è quella che difende lo sfruttamento del capitale sul lavoro salariato: la violenza padronale. Nella società capitalista la classe sfruttata, il proletariato, è vittima sia della legalità sia dell’illegalità capitalistica. Lo Stato borghese, la magistratura e le sue istituzioni non sono organismi neutrali e la “legalità” serve a difendere l’ordine costituito, gli interessi dei grandi capitalisti, delle multinazionali, della finanza, delle banche e di tutti gli sfruttatori. Lottare all’interno delle regole stabilite dal nemico, nella sua “legalità”, significa rinunciare a lottare per gli interessi immediati e storici della classe oppressa. Non esiste uno Stato neutrale e una giustizia superiore cui appellarsi. La violenza borghese che si manifesta ogni giorno nello sfruttamento, nei licenziamenti e nei morti sul lavoro - nei morti del profitto - e l’impunità costante degli sfruttatori sta a dimostrarlo.
maggio 2021 redazione
Palestina
La grande sorpresa della città di Al-Quds Fino ad oggi le aggressioni sanguinarie contro la Striscia di Gaza sono state per iniziativa dell’esercito dell’entità sionista e vediamo perché. I coloni sionisti in Palestina rendevano l’embargo e l’assedio contro Gaza più stretto e più duro spingendo così la popolazione alla protesta. A quel punto l’esercito iniziava a sparare nel mucchio per costringere le forze della resistenza armata palestinesi a reagire, con un lancio di razzi o missili diventati sempre più letali e distruttivi. Era un modo per israele di conoscere e sperimentare l’arsenale in dotazione alla resistenza. Procedendo in questo modo, e non importa quante vittime civili ciò poteva mietere, i nazisionisti hanno potuto seguire i progressi e gli sviluppi dell’arsenale bellico della Resistenza. Essi miravano anche ad evitare brutte sorprese sul campo e a prendere le contro misure in anticipo. La violenza genocida e distruttiva adottata dall’aviazione sionista in tutte le aggressioni contro Gaza aveva lo scopo di mettere in ginocchio la popolazione civile e di conseguenza quella armata. Ma nessuno a Gaza si è inchinato malgrado le gravi ferite. Accadeva in precedenza che era la popolazione civile palestinese sia a Gaza che altrove, a prendere sotto la sua ala protettiva la componente della resistenza militare. Di fronte agli attacchi le masse palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, negli interni del ‘48 o nella diaspora, sono sempre scese nelle strade o piazze in sostegno della resistenza armata. Lo abbiamo visto sia nella prima aggressione del 2008/9, in quella del 2012, ma anche in quella del 2014: il popolo palestinese sostiene e protegge la sua resistenza e i suoi Fedayn. Stavolta la formula si è invertita grazie a Gerusalemme. Oltre ad unire tutto il popolo palestinese, ed è solo per questo grandissimo e miracoloso risultato che va chiamata Intifada, ha saldato l’unione tra le due ali della Resistenza palestinese: armata, del lancio delle pietre e della difesa delle proprie case. La novità nel rapporto tra le due, consiste nel fatto che adesso si può parlare di una resistenza civile che detiene un’ala militare a sua protezione, come i grandi eserciti. Il popolo di Al-Quds (Gerusalemme) ha chiamato la resistenza di Gaza e quest’ultima ha risposto immediatamente, puntuale, precisa e ordinata. Oggi in israele sono confusi, arrabbiati e sempre più spaventati. Nel raggio di 30Km da Gaza i coloni sionisti rimasti a casa sono pochi, la stragrande maggioranza sono andati a nord lontano dai missili di Gaza. I commentatori politici e militari israeliani accusano Netanyahu di avere sabotato lo Stato al suo sevizio per obiettivi personali; lo accusano di avere già attribuito la vittoria ad Hamas. Già, perché AlQuds ha già vinto la sua prima battaglia mediatica facendo vedere al mondo intero le brutalità della polizia nazisionista e decine di milioni di persone nel mondo hanno interagito con gli attivisti della rete palestinesi. Ecco perché in pochi ormai credono al racconto delle menzogne (Hasbarà) sioniste. Gli israeliani, sotto pressione, hanno iniziato una nuova guerra contro Gaza bombardando nel mucchio, distruggendo palazzi e abitazioni civili, uccidendo tanti bambini, mentre i mercenari coloni nazisionisti continuano le loro scorrerie nei villaggi e nelle città palestinesi. Non sappiamo quando dura e lunga sarà questa guerra e quanti altri sacrifici dovrà pagare il popolo palestinese, però da qui non si torna indietro e tutti i servi palestinesi dell’entità sionista (ANP) dovranno dileguarsi. Una nuova intifada è cominciata ed è rappresentata da tutto il popolo palestinese: Cisgiordania, Gaza, Palestina storica del ‘48 (israele) dove vivono 1 milione e 700.000 Palestinesi.
maggio 2021 redazione
Colombia
Anche la Colombia… Daniela Trollio C’è un fiume sotterraneo che scorre lungo tutta l’America Latina e ogni tanto affiora. È il fiume della rivolta proletaria e popolare La penultima volta è stato in Cile, il paese che passava per essere la “vetrina” dei successi del neoliberismo: nell’ottobre 2019 scoppia la rivolta, apparentemente per l’aumento del 4% delle tariffe della metropolitana. In realtà per la prima volta, in modo massiccio, vengono messi in discussione 30 anni di neoliberismo che hanno ridotto il proletariato e le classi medie sul lastrico, indebitate fino agli occhi perché tutto – servizi, sanità, scuole, pensioni – è ormai privatizzato (il paese fu il ”laboratorio” dei Chicago boys, dove si sperimentò per la prima volta il neoliberismo). Alla metà del mese di maggio 2021- dopo più di 15 mesi di rivolta in cui il regime ha tentato di tutto per fermare le proteste, compreso l’accecamento organizzato dei “cabros” (ragazzini, n.d.t.) - si è votato per eleggere i 155 membri dell’Assemblea Costituente, organo che dovrà – dopo il referendum del 1988 e la fine formale della dittatura nel 1990 che non avevano cambiato nulla - riscrivere la costituzione del Cile, cancellando finalmente quella redatta durante il regime di Pinochet e rimasta in vigore fino a quest’anno. Sono stati eletti anche più di 340 sindaci e governatori e Santiago del Cile avrà il primo sindaco oltre che donna anche membro del Partito Comunista, Hiracì Hassler. Il fiume è poi riaffiorato, dall’altro estremo del continente, il 28 aprile, primo giorno del Paro (sciopero) Nacional, in Colombia, il narco-Stato governato da Ivàn Duque, l’erede di Uribe. Come scrive la ex senatrice Piedad Cordoba “dopo 100 anni di solitudine, a Macondo sta succedendo qualcosa”. Anche qui, come su tutto il pianeta, la pandemia ha messo a nudo la natura dell’ordine sociale vigente, il capitalismo, con la sua essenza inumana e il disprezzo per la vita dei poveri e, complici, un progetto di riforma tributaria e uno sulla sanità che, oltre a privatizzare ulteriormente il settore, scaricavano i costi della pandemia sulle classi più povere. Basti sapere che il governo Duque, unico al mondo ad elevare le tasse durante la più grande crisi sociale, ha destinato solo il 2,8% del PIL alla pandemia (gli USA le hanno dedicato il 24,8%) e quasi la metà di questa miserabile percentuale è rappresentata da un’assicurazione di credito alle banche private. Quel 28 aprile si svolge il più grande sciopero di tutta la storia della Colombia. E da allora ogni settimana vede mobilitazioni, scioperi, scontri in tutto il paese, che acquisiscono maggiore importanza anche perché infrangono il regime di eccezionalità imposto con la scusa dalla pandemia e, si calcola, coinvolgono in più di 600 città e paesi e circa 5 milioni di persone. Ad opporsi al popolo colombiano, polizia, esercito e Squadroni mobili antidisturbi (Esmad): Duque e il suo padrino Uribe, l’ex presidente, li invitano anche a fare il “massimo uso” della forza, come se affrontassero dei nemici, non dei cittadini colombiani, operai, lavoratori, studenti, comunità indigene e organizzazioni sociali. ll 18 maggio si contavano circa 40 morti, più 20 giovani accecati consapevolmente (come già fatto in Cile), 1.600 feriti, 500 desaparecidos e 2.113 denunce di violenze poliziesche e abusi, tra cui il suicidio di Alison Méndez, una adolescente di 17 anni violentata da 4 poliziotti. Anche in quella data – nonostante il Congresso abbia ritirato entrambi i progetti di legge e 2 ministri si siano dimessi- si sono registrati scioperi e manifestazioni, con blocchi delle strade, a Bogotà, a Cali – diventata l’epicentro degli scontri – a Medellìn, a Popayàn, dove decine e decine di migliaia di manifestanti chiedono ora la fine della repressione poliziesca. Ciò significa che è stata sconfitta la paura, sia della sanguinosa azione di repressione dello Stato che della pandemia, che in molti luoghi ha invece chiuso le nostre bocche. Come si è arrivati a tanto? E pensare che la Colombia, che si definisce “la democrazia più antica d’America” è un paese che non è passato per le dittature nei decenni ’70 e ’80 come la maggior parte degli altri Stati latinoamericani. Non ce n’era bisogno; negli anni ’60 l’élite dominante stava già utilizzando, con i complimenti del presidente USA John Kennedy, la Dottrina sulla Sicurezza Nazionale (sicurezza per difendere i profitti dei più ricchi, il 3% della popolazione, e giustificare la spoliazione dei beni comuni), utilizzata ancor oggi per far sparire il “nemico interno”, l’opposizione politica, la propria popolazione. Infatti, nelle varie “guerre” al narcotraffico (di cui l’élite che governa è protagonista e complice da sempre) e poi al ‘terrorismo’ (delle FARC, non certo delle organizzazioni paramilitari che, al soldo dei proprietari terrieri degli industriali, uccidono indiscriminatamente chi si oppone nelle campagne e nelle città), la Colombia ha ampiamente usato e abusato dei “falsi positivi”. Dati i bonus in denaro riconosciuti a militari e poliziotti per la cattura di ‘narcotrafficanti e terroristi’, sono stati centinaia i giovani rapiti nei quartieri poveri delle città, ammazzati e poi registrati come ‘delinquenti’ uccisi dalle forze dell’ordine. È il paese delle fosse comuni, che raccolgono fino a 2.000 corpi ognuna. I numeri, poi, dicono molto. La Colombia, invasa dalle truppe USA per “stroncare il narcotraffico”, è il più grande produttore di cocaina al mondo, cocaina che finisce in maggior parte proprio negli USA e il cui 95% dei profitti riposa nelle banche statunitensi. Il paese ‘vanta’ 21 milioni di poveri su 50,4 milioni di abitanti, ha un debito che oltrepassa la metà del PIL nazionale, un buco fiscale di più di 90 bilioni (sì, Bilioni), spese militari che rappresentano il 2° capitolo del bilancio statale e una percentuale di disoccupazione del 18% in un paese con un’altissima cifra di lavoro informale (lavoro nero): 30 anni di neoliberismo hanno cucinato questa crisi, che nasce - come in Cile - su rivendicazioni economiche ma presto assume, data anche la risposta del governo, un carattere politico che, per la prima volta in 30 anni, ha vinto, ottenendo che i due progetti di legge fossero ritirati. In questo disastro sociale sono coinvolte tutte le generazioni, ma i giovani, come anche in Cile, giocano il ruolo più importante e costituiscono la prima linea del movimento reale. Giovani lavoratrici e lavoratori, disoccupati, lavoratori informali, contadini, indigeni, afrodiscendenti, sempre più consapevoli di non avere alcun futuro se non uno sfruttamento selvaggio e senza freni; un insieme che costituisce circa il 25% della popolazione colombiana tra i 14 e i 26 anni, cioè 12,7 milioni di persone. Anzi, se guardiamo alle cifre dei morti, sembra che in Colombia sia un delitto essere giovani: nel 2018 sono stati assassinati 545 ragazzi tra i 15 e i 17 anni e 883 minori di 10 anni tra il 2018 e il 2019. Altri soggetti della lotta sono le comunità indigene, da sempre bersaglio dei paramilitari. Sono loro le protagoniste dei blocchi stradali tra dipartimento e dipartimento. Da sempre colpita dalle bande paramilitari al soldo dei proprietari terrieri e delle multinazionali che si alimentano del saccheggio delle immani risorse naturali colombiane - che fanno da oltre 60 anni il “lavoro sporco” liberando ampie zone contadine dai possibili oppositori - la popolazione indigena in questa crisi partecipa con la Guardia Indigena che, nata come risposta a queste incursioni e sulla base della propria sanguinosa esperienza, oggi prende parte anche nelle città alla difesa dei manifestanti. Bande paramilitari - che operano di concerto con esercito e polizia - che il 19 maggio, penetrate illegalmente in territorio venezuelano, hanno assassinato Jesùs Santrich, comandante guerrigliero delle FARC, tagliandogli - in perfetto stile mafioso - un dito della mano sinistra (anche Ernesto Che Guevara fu ucciso a sangue freddo da un “soldadito” boliviano che fece il lavoro sporco, ma i registi dell’operazione erano altri). Questa strategia viene da lontano e parla l’inglese di Washington. E quando si dice che “la Colombia è l’Israele dell’America Latina” non si tratta di una metafora ma della nuda verità. E qui dovremmo anche chiederci dove sono le anime belle della nostra Unione europea che si indignano se la Bolivia vuole processare i golpisti come i boliviani Leopoldo Lòpez e Janine Añez, ma tacciono fragorosamente sui massacri compiuti in Colombia. Così come tacciono sul fatto che l’impero nord-americano ha fatto della Colombia una testa di ponte della sua penetrazione militare nel continente, insieme allo Stato di Israele; due soci che da lunghi anni dirigono la guerra controinsurrezionale, non da lontano ma sul terreno con personale proprio, vigilando e castigando dalle 7 basi militari in territorio colombiano ogni eventuale ribellione con le truppe autoctone, addestrate da consiglieri statunitensi e israeliani ad assassinare il proprio popolo. Ricordiamo anche che la Colombia è l’unico Stato sudamericano membro della NATO, che può quindi vigilare, oltre che sulle ricchezze del proprio territorio, su Stati come Venezuela (con cui condivide i confini sud e ovest) e Nicaragua, ostili a Washington. Per riassumere in poche parole, lasciamo parlare lo scrittore e giornalista colombiano Hernando Calvo Ospina: “E per finire vi dico: la proposta di riforma tributaria è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Quei milioni di poveri, in un paese immensamente ricco, non sopportano più di dover scegliere tra il molto poco e il nulla: hanno davvero pochissimo da perdere”.
marzo 2021 redazione
ex Ilva
Ex Ilva: l’avvelenamento degli operai e della popolazione può continuare “legalmente” Michele Michelino Il Consiglio di Stato accoglie il ricorso di ArcelorMittal e commissari contro l’ordinanza del Tar: l’ex Ilva e non spegne gli altoforni che possono continuare a inquinare. Il 12 marzo 2021 il Consiglio di Stato ha accolto la richiesta di sospensiva dell’ordinanza del Tar di Lecce che convalidava la decisione presa un anno fa dal sindaco di Taranto che intimava ad ArcelorMittal e all’Ilva in Amministrazione straordinaria di intervenire per ridurre le criticità legate all’inquinamento della fabbrica.  Dopo vari ricorsi, sia della società che gestisce gli impianti siderurgici di Taranto, sia della società proprietaria degli stessi - che avevano chiesto di bloccare la sentenza con la quale, lo scorso 13 ottobre, il Tar Lecce ha ordinato ad ArcelorMittal di spegnere gli impianti ritenuti inquinanti entro 60 giorni - ora è arrivata la sentenza favorevole all’azienda. I giudici della Quarta sezione, hanno «ritenuto prevalente l'esigenza di evitare il grave e irreparabile danno che sarebbe derivato dalla sospensione dell'attività, cui si sarebbe dovuto procedere entro la scadenza dei termini stabiliti nell'ordinanza stessa». Inoltre per il Consiglio di Stato «non è stato adeguatamente smentito che lo spegnimento della cosiddetta "area a caldo" in tempi così brevi e senza seguire le necessarie procedure di fermata in sicurezza, avrebbe comportato con certezza gravissimi danni all'impianto, tali da determinare di fatto la cessazione definitiva dell'attività». Questo, tradotto in altre parole, significa che anche se continua a inquinare e uccidere i lavoratori e popolazione residente, all’ex Ilva «L’attività produttiva dello stabilimento può dunque proseguire regolarmente». Ancora una volta il governo, lo Stato borghese, si schierano a difesa dei padroni: il profitto prima di tutto. Chi era illuso si salvaguardare la salute attraverso la magistratura ha dovuto ricredersi. La salute si difende bonificando gli ambienti di lavoro, eliminando le lavorazioni nocive. La difesa del posto di lavoro e del salario, della salute in fabbrica e nel territorio si scontra giornalmente con la logica del massimo profitto. I padroni, minacciando licenziamenti e delocalizzazioni; cercano col ricatto della perdita del posto di lavoro di contrapporre i lavoratori alla popolazione ma non spendono soldi per mettere in sicurezza impianti nocivi e inquinanti. In questa, come in molte altre fabbriche, dove la contrapposizione tra i lavoratori e la popolazione è gestita direttamente dal movimento sindacale confederale a favore del padrone con gravi danni per la salute sia degli operai, sia della popolazione il ruolo di servi del padrone dei sindacati confederali e concertativi è la dimostrazione del potere dei padroni. Ancora una volta il dominio incontrastato del padrone nella fabbrica e nella società si evidenzia con le istituzioni che si schierano sempre col padrone. In questi anni abbiamo visto spesso inchieste nelle quali politici, sindacalisti, medici, scienziati, istituzioni, tecnici sul libro paga dei padroni hanno ricevuto generose “donazioni” e privilegi in cambio del controllo e del contenimento all’interno delle compatibilità aziendali o nazionali delle rivendicazioni dei lavoratori. Negli anni '70 nelle fabbriche di Sesto San Giovanni, in un’altra situazione economica e politica, la contraddizione fu risolta direttamente dagli operai con fermate improvvise, scioperi spontanei di gruppi di lavoratori, in particolare delle lavorazioni a caldo di forgia e fonderia (costretti a lavorare pezzi di acciaio dai 1250 ai 1500 gradi centigradi) quando, nei mesi estivi, la temperatura sul posto di lavoro diventava intollerabile provocando continui svenimenti fra gli operai. Queste lotte contro la nocività - che non delegavano a nessuno il problema della salute in fabbrica, né al padrone, né al sindacato - attraverso cortei interni e discussioni con tutti gli operai costrinsero i sindacati a rincorrere gli operai anche sul problema dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Delegare la difesa del posto di lavoro e la salute al padrone al governo, alla magistratura, al sindacato, alle istituzioni è il modo migliore per perderli entrambi. La difesa del posto di lavoro e della salute si può realizzare solo nella lotta in fabbrica e nel territorio, nella critica all’organizzazione capitalistica del lavoro. Quando gli operai manifestano la loro autonomia di classe con scioperi contro il padrone e i dirigenti responsabili della brutalità delle condizioni di lavoro nocive lottano non solo per loro, ma per la maggioranza dell’umanità... Delegare al padrone e agli istituti specializzati il controllo della nocività e dell’inquinamento ambientale sul lavoro e sul territorio è come legarsi al collo una corda sperando nella buona fede del boia che la tiene in mano. La lotta per la difesa della salute ha bisogno di partigiani, rimanere neutrali nella lotta di classe, astenersi dalla battaglia non garantisce né il posto di lavoro né la salute dei lavoratori e della popolazione. Il sistema capitalista, nella continua ricerca del massimo profitto, distrugge gli esseri umani quanto la natura e non si può accettare di barattare il lavoro di alcuni contro la salute di tutti. Si lavora per vivere, non per morire! Se i padroni ci vogliono costringere a lavorare per continuare a intascare profitti facendoci rischiare la vita ogni giorno nei luoghi di lavoro malsani, in fabbrica in reparti nocivi e inquinando il territorio, dobbiamo dire chiaramente che noi vogliamo lavorare in sicurezza e che a condizione di morte niente lavoro. La scelta fra morire di fame e morire di cancro non è una scelta. La lotta del movimento operaio è da sempre una lotta contro lo sfruttamento, per eliminarne le cause, la società capitalista basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La salute si rivendica e la nocività si elimina. È questa la lotta che vale la pena di fare. Ancora una volta il governo interviene per sospendere un'ordinanza che bloccava un impianto di morte, inquinante e pericoloso per gli operai e la popolazione dimostrando che i nemici sono in casa nostra: i padroni e i loro governi.