maggio 2021 redazione
Strage Viareggio: sottoscrizione
Strage Viareggio: sottoscrizione spese legali RLS processo Non eravamo soli in quelle aule di tribunale 100.000 volte grazie (e anche di più) Viareggio, 1° maggio 2021. Non eravamo soli. Oggi nella data simbolo per tutti i lavoratori, possiamo dirlo forte. Al nostro fianco come Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, in quelle aule dei tribunali sui banchi delle parti civili, per quasi dieci anni, oltre ai familiari delle vittime, c’erano migliaia di altri ferrovieri, lavoratrici e lavoratori, disoccupati, pensionati di ogni settore, semplici cittadini, sindacati, associazioni, collettivi e personalità della cultura. Lo dimostra la straordinaria partecipazione delle circa 3.000 persone che, sensibili a quella tragedia e ai temi della sicurezza, hanno contribuito individualmente oppure in forma organizzata al difficile traguardo di questa sottoscrizione solidale per raggiungere la somma di circa 80.000 euro per le spese legali e processuali che siamo stati chiamati a versare sulla base del dispositivo della sentenza della Corte di cassazione dell’8 gennaio scorso, provvedimento che ci ha delegittimato quali parti civili ribaltando le decisioni conformi di primo e secondo grado. Vogliamo ringraziarvi tutte e tutti, una ad uno, dal disoccupato che, con imbarazzo ma grande dignità, ha contribuito consegnando a mano cinque euro in monete, scusandosi per la modestia della cifra a tutti coloro che hanno contribuito, ciascuno secondo le proprie possibilità e sensibilità, con somme più o meno alte ma con identico spirito di solidarietà. Un grazie particolare alla Cassa di Solidarietà tra ferrovieri e alle compagne e compagni di lavoro che la gestiscono, poiché fin dal primo momento, ci hanno sostenuto e accompagnati anche nell’organizzazione di questa sottoscrizione nonché all’Assemblea 29 giugno, instancabile motore di mobilitazione per ogni iniziativa organizzata in questi lunghi 12 anni e alla rivista Ancora In Marcia!, insostituibile strumento di informazione democratica autogestita. Nella straordinaria partecipazione si legge anche la consapevolezza diffusa di dover far fronte collettivamente ad una sentenza ingiusta, per respingere con l’arma della solidarietà, il tentativo di tenere fuori i lavoratori dai grandi processi i tema di salute e sicurezza del lavoro, riguardanti gli impianti industriali di ogni genere, sulla base della ‘minaccia’ economica. Un traguardo non scontato, che sul piano personale ci solleva dall’insostenibile peso economico delle ingenti spese; su quello politico e sociale dimostra l’esistenza di una vasta sensibilità diffusa e il bisogno di partecipazione in larghi settori del nostro paese. Un risultato così positivo che ci fornisce anche le risorse per proseguire – non appena avremo letto le motivazioni della sentenza – nel nostro impegno, eventualmente anche nel percorso giudiziario, utilizzando tutti gli strumenti messi a disposizione delle leggi, nazionali e comunitarie. Quello manifestato dalla Cassazione nel processo Viareggio, è infatti un orientamento giuridico, dal sapore reazionario, che guarda al passato poiché tende a marginalizzare le istanze dei lavoratori dai processi. È bene esserne consapevoli e pronti a contrastarlo, sia con gli strumenti giuridici a nostra disposizione che, soprattuto, con quelli della partecipazione, del dibattito, dell’iniziativa politica e della mobilitazione. Nel comunicare che la sottoscrizione ha raggiunto e superato la soglia dei 100.000 euro, ed è arrivata alla straordinaria cifra di 135.311,69 Euro, pubblichiamo il rendiconto dettagliato dei partecipanti e quello aggregato delle somme versate. Quanto raccolto sarà impiegato per soddisfare prioritariamente le richieste già presentate dai legali di FS per le ‘spese legali’, che ammontano esattamente a € 11.997,22 per ciascuno di noi sei. Invece le ‘spese processuali’ cui siamo stati condannati dalla Corte di Cassazione – in assenza delle motivazioni – non sono ancora determinate.  Molti singoli e realtà organizzate ci hanno comunicato che hanno appena versato o che intendono versare nei prossimi giorni: il conto corrente e la sottoscrizione restano quindi aperti e il 29 giugno 2021, in occasione del 12° anniversario della strage, pubblicheremo il terzo rendiconto. Una volta soddisfatti gli ‘obblighi giudiziari’ tutte le somme eccedenti, alla luce delle motivazioni della sentenza, le destineremo all’eventuale proseguimento del percorso giudiziario relativo alla strage di Viareggio, a iniziative di solidarietà in tema di salute e sicurezza del lavoro e del trasporto ferroviario, e a tutela di lavoratori e ambiti oggetto di repressione, versandole alla Cassa di Solidarietà tra ferrovieri, quale strumento di tutela collettiva, il cui motto è “La solidarietà è il primo passo verso la libertà”. Ancora un grande grazie a tutte e tutti voi. Alessandro Pellegatta, Dante De Angelis, Filippo Cufari, Giuseppe Pinto, Maurizio Giuntini e Vincenzo Cito
maggio 2021 redazione
Mumia Abu-Jamal, 40 dietro le sbarre
Di fronte all'attuale situazione, i suoi sostenitori chiedono la mobilitazione internazionale perché è una questione di vita o di morte. Per il medico Ricardo Alvarez: "il suo rilascio è l'unico trattamento" che impedirebbe il peggio Mumia Abu-Jamal, quarant'anni dietro le sbarre Quella di Mumia Abu-Jamal è una vita quasi completamente priva della libertà. Arrestato a 27 anni, accusato della morte di un poliziotto bianco, oggi ne ha 67. Quarant'anni spesi a rivendicare la sua innocenza, è senza dubbio uno dei detenuti americani incarcerati da più tempo, e spera ancora di tornare a casa. Mumia Abu-Jamal, un giornalista afroamericano vicino alle Pantere Nere, impegnato a combattere la segregazione, ha visto la sua vita sconvolta nel dicembre 1981. All'epoca era un tassista notturno per sfamare la sua famiglia. All'alba del 9 dicembre lascia un cliente in un quartiere meridionale di Philadelphia, Pennsylvania, incappa in una sparatoria e viene ferito. Nella sparatoria viene ucciso un poliziotto bianco, Daniel Faulkner: Mumia Abu-Jamal è accusato dell'omicidio. Malgrado la mancanza di prove e un'indagine fallimentare, Mumia Abu-Jamal viene condannato a morte il 3 luglio 1982. Grazie alla mobilitazione internazionale e americana, è sfuggito all'esecuzione due volte, nel 1995 e nel 1999. Nel dicembre 2001 la sua condanna a morte viene sospesa, anche se resta rinchiuso nel braccio della morte. Dopo 34 anni di carcere, 30 dei quali sperando di sfuggire all'iniezione letale, la condanna di Mumia Abu-Jamal è stata commutata in ergastolo senza possibilità di libertà vigilata. Nel 2011 viene mandato alla prigione di Mahanoy, a due ore e mezza di macchina da Filadelfia. Mumia Abu-Jamal è ancora lì. Il detenuto AM8335 entra nel suo quarantesimo anno di detenzione. La speranza in nuovo ricorso Il primo mercoledì di ogni mese da trentacinque anni, a Parigi, in Place de la Concorde, a poche centinaia di metri dall'ambasciata americana, il nome di Mumia Abul-Jamal viene esposto su grandi striscioni appesi al muro del giardino delle Tuileries. Jacky Hortaut, membro del collettivo Libérons Mumia e della Coalizione mondiale contro la pena di morte, ha visitato Mumia Abul-Jamal un anno fa. Da allora, solo l'avvocato Johanna Fernandez ha potuto entrare in contatto con il prigioniero. Direi che siamo arrivati al penultimo passo, un momento importante del lungo processo giudiziario. Sono quarant'anni che va avanti così, e finora Mumia non ha mai ottenuto un appello per la condanna a morte. Adesso è possibile dato che il tribunale della Pennsylvania ha respinto l'appello che ha bloccato [la sua difesa] nel dicembre 2020. E se si tenesse un nuovo processo per difendere la sua innocenza, sarebbe in gioco il rilascio di Mumia Abul-Jamal. Jacky Hortaut spera che il processo giudiziario proceda a favore del detenuto. Anche il contesto nazionale americano si è evoluto dopo la morte dell'afroamericano George Floyd soffocato sotto il peso del ginocchio di un poliziotto di Minneapolis. Un evento tragico che ha infuocato gli Stati Uniti per dieci giorni. Anche a Philadelphia ci sono state manifestazioni. Ed è stata un'opportunità per i sostenitori di Mumia Abu-Jamal di chiedere il suo rilascio. Una nuova speranza? È incredibile. Il governatore ha il diritto di grazia. Se prendesse questa decisione, Mumia potrebbe accettarla perché pensa solo a una cosa, tornare a casa, dove sua moglie, i suoi figli, i suoi nipoti lo aspettano da quarant'anni. Il caso di Mumia Abu-Jamal tornerà quindi nell'ambito giudiziario, ma non è ancora in calendario. E nell'immediato futuro, ciò che preoccupa Jacky Hortaut è ciò che sta accadendo attualmente nella prigione di Philadelphia, dove a 2.500 prigionieri è vietato il contatto esterno a causa della pandemia di coranavirus. Le uniche persone che entrano ed escono sono le guardie, e attraverso questo andirivieni la pandemia si diffonde. Tutti hanno paura. Questo è quello che ha detto Mumia. Non abbiamo notizie quotidiane, ma la sua portavoce Johanna Fernandez ci ha detto un mese fa che Mumia non aveva il Covid ma che c'erano forti timori che il virus si sarebbe diffuso nel carcere. Collettivamente e per se stesso, Mumia Abu-Jamal teme la pandemia. In quattro decenni di prigione, la sua salute è peggiorata. In particolare, è diventato più fragile dopo essere stato infettato dall'epatite C. Nel 2015 l'amministrazione penitenziaria gli ha negato l'accesso alle cure per la malattia. Dopo 12 mesi durante i quali la sua condizione si è indebolita, Mumia Abu-Jamal è stato curato, grazie, ancora una volta, alle pressioni dell'opinione pubblica. In quel momento disse: Amici e fratelli miei, non è finita. Le cose forse si stanno muovendo e la possibilità di una vera cura, non solo dei sintomi ma della malattia stessa, è in vista. Grazie a tutti voi per essere sempre al mio fianco. La libertà è una lotta quotidiana. Vi amo tutti. Vostro fratello, da così lungo tempo nel braccio della morte. Salute fragile, morale ferrea Mumia Abu-Jamal ha avuto altre complicazioni di salute, come la cirrosi epatica che il direttore del carcere ha rifiutato di curare. Secondo lui, il trattamento sarebbe costato centinaia di migliaia di dollari... Ma quando ha compiuto 60 anni, dopo aver trascorso metà della sua vita non solo in prigione ma anche in isolamento, Mumia Abu-Jamal ha impressionato per la sua robustezza. Fisicamente imponente e forte, il volto incorniciato dai dread, una testa piena di ideali, di convinzioni, di umanità e di lotte per la giustizia. Prima di essere incarcerato, Mumia Abu-Jamal era un giornalista e attivista per i diritti dei neri. Ha anche denunciato la corruzione che affliggeva la polizia di Filadelfia. Ha continuato i suoi impegni nel mondo carcerario. Ha aiutato i detenuti a risolvere i loro problemi e ad affrontare le procedure amministrative e legali. Li ascolta, li stimola, li consiglia. I detenuti lo hanno soprannominato "Vecchio" o "Saggio". Mumia Abu-Jamal ha scritto numerosi libri e articoli sulle condizioni di detenzione, sulla realtà del braccio della morte e sui suicidi dei detenuti. La stampa americana lo ha soprannominato "The Voice of the Voiceless". È diventato un simbolo negli Stati Uniti e nel mondo. Dopo quattro decenni di prigionia, Mumia Abu-Jamal ha scritto un nuovo saggio. È in uscita il suo terzo libro sui risvolti politici del capitalismo. La scrittura gli permette una coscienza da uomo libero, nell'attesa di respirare l'aria di fuori. Al momento, a causa di Covid-19, rimane rinchiuso 23 ore al giorno. Così ha solo un'ora per la doccia, una telefonata, uscire dalla cella. Nuovo isolamento Questo isolamento non è la prima volta per Mumia Abu-Jamal. È sopravvissuto trent'anni nel braccio della morte. 10.950 giorni, da solo in una cella grande come un bagno, cercando di dimenticare che il giorno dopo poteva essere l'ultimo della sua vita. "È un modello per tutti gli attivisti", dice Claude Guillaumaud-Pujol, accademico e specialista degli Stati Uniti, autore di diversi libri tra cui Mumia Abu-Jamal, combattant de la liberté (Edizioni Le Temps des Cerises). È iperattivo, lavora tutto il tempo. Scrive, scrive, scrive. Ha una forza di carattere senza pari. Si preoccupa molto degli altri. Preferisce parlare di loro piuttosto che di se stesso, tranne quando è preoccupato per la sua salute. Non si lamenta mai. Ammiro il modo in cui tiene duro". Crede nella forza della verità. È rimasto in prigione perché si rifiuta di confessare un omicidio che non ha commesso. Sa che alla fine uscirà. Da allora sono stati realizzati e continuano ad uscire diversi lungometraggi e documentari su Mumia Abu-Jamal. Presto la HBO pubblicherà un film sulla sua famiglia. Un altro regista mostrerà sullo schermo il procuratore distrettuale di Philadelphia Larry Krasner e figure chiave della città della Pennsylvania che guidano la polizia e il sistema giudiziario. Il procuratore distrettuale sta perdendo interesse nel caso di Mumia. Lascerà che l'appello per un nuovo processo vada avanti. Il problema è che i poliziotti non vogliono un nuovo processo perché si possono dire cose che non vogliono sentire. "Mentre rileggevo i rapporti, ho pensato: non si dovrebbe spostare il dibattito su chi ha ucciso l'agente Faulkner? Perché se lo troviamo, automaticamente Mumia è assolto. Il poliziotto era nei guai, come suggerito dal suo protetto, che ha parlato del suo aspetto tormentato? Faulkner era un informatore dell'FBI? Stava conducendo un'indagine federale sulla polizia di Philadelphia, uno dei dipartimenti di polizia più corrotti del paese? Quali erano i problemi all'interno del dipartimento di polizia? Dopo il processo di Mumia, sono stati arrestati 15 agenti di polizia. Faulkner si è rifiutato di farsi corrompere? Davvero, scoprire chi ha sparato e ucciso Daniel Faulkner scagionerebbe Mumia e gli renderebbe la libertà". Contesto di supporto Claude Guillaumaud-Pujol non vede Mumia Abu-Jamal da dicembre 2018. Data a partire dalla quale le autorizzazioni di visita sono state sospese. "È invecchiato, sta perdendo i capelli, è ingrassato a causa del cattivo cibo, non può più fare sport come una volta. Ma è sereno, sempre sereno, straordinariamente sereno". Lo studioso fa affidamento sull'attuale contesto americano per aiutare a far uscire di prigione Mumia Abu-Jamal. Oltre all'uccisione mortale della polizia di George Floyd e all'arrivo di una nuova leadership democratica alla Casa Bianca, l'atmosfera a Philadelphia sta cambiando. Negli ultimi due anni, tutti i membri del Movimento - un'organizzazione rivoluzionaria fondata negli anni '70 per contrastare le ingiustizie contro i neri - sono stati rilasciati, contro ogni previsione. Vittime di numerose persecuzioni, erano state falsamente accusate della morte di un agente di polizia. Cinque uomini e quattro donne erano all'ergastolo. Un altro sviluppo ottimistico, sono le scuse avanzate dal consiglio comunale di Philadelphia per il massacro e il bombardamento del quartiere dove il movimento viveva il 13 novembre 1985. Ha deciso di tenere una giornata di riflessione a Philadelphia il 13 maggio. Scrivo il tuo nome Sebbene non avesse precedenti giudiziari, abbia negato i fatti, le perizie balistiche siano inesistenti, le indagini siano state affrettate, i testimoni siano stati minacciati, le denunce della polizia siano state subornate e contraddittorie e i suoi diritti di difesa siano stati violati, Mumia Abu-Jamal è convinto che la libertà gli sarà restituita dalla giustizia del suo Paese dopo tanti anni dietro le sbarre. Fuori, la sua reputazione si sta diffondendo, dagli Stati Uniti al Canada, dall'Africa all'Europa. I suoi sostenitori esterni non si arrendono, anche se il tempo ha reso rare le mobilitazioni su larga scala che hanno ripetutamente salvato Mumia Abu-Jamal. Nel 2000, in un rapporto Amnesty International indicava 70 motivi per riavviare il suo processo. A Mumia Abu-Jamal è stata riconosciuta la cittadinanza onoraria di 26 comuni francesi: Parigi, Clermont-Ferrand, Sète, Auby, Portes-lès-Valence e Saint-Anne, per citarne solo alcuni. Altrove nel mondo, altri comuni in Danimarca, Quebec, Italia e Stati Uniti hanno sostenuto Mumia Abu-Jamal e scritto il suo nome affinché non venga dimenticato. Nadine Epstain |  franceculture.fr Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare 08/01/2021
marzo 2021 redazione
Palestina
Il grande silenzio: il Covid in Palestina e in Israele Daniela Trollio È in atto un nuovo patto del silenzio su tutti i media Israele sembra essere il paese dei primati: più di 50 anni di occupazione coloniale della Palestina senza che nessuno abbia mai pensato di difendere i diritti umani dei palestinesi; ha un arsenale che va dalle 80 alle 200 bombe atomiche (oltre a quelle chimiche e biologiche) senza aver mai ricevuto una visita dell’AIEA; ha creato il più grande campo di concentramento mondiale a cielo aperto a Gaza. Ora può vantare un altro record: con più di 2,7 milioni di persone (israeliane) vaccinate con la prima dose del vaccino Pfizer (su una popolazione di circa 9 milioni) e 500.000 che hanno ricevuto la seconda dose, è diventato il campione delle vaccinazioni contro il Covid-19 grazie ad un contratto esclusivo con la multinazionale Pfizer. Peccato che la grancassa mediatica dimentichi alcune cose: Israele è una società militarizzata e informatizzata, il controllo dei cittadini e dei non-cittadini è minuzioso e sistematico, la violazione dei diritti civili in nome della sicurezza è “normale”. Andiamo avanti. Domanda: come mai la Pfizer favorisce un piccolo paese mentre non rispetta i contratti con la ben più grande Unione Europea? Qualche risposta: secondo i mezzi di informazione israeliani, il governo israeliano ha pagato le dosi di vaccino Pfizer anche il 50 % in più del prezzo normale (68 dollari circa, mentre gli USA ne pagano 19). Ma non solo: il governo concede a Pfizer l’accesso ai dati medici e statistici della propria popolazione. Quali dati? Non si sa, perché il contratto è stato sì pubblicato sotto la pressione dei mezzi di informazione, ma è in gran parte secretato. Tra l’altro la cessione dei dati personali dei propri cittadini e quelli dei non-cittadini (i palestinesi) ad un gigante farmaceutico il cui scopo è – ricordiamolo sempre – fare profitti per i suoi azionisti, non rappresenta certo un esempio di lotta al virus, ma un sinistro assaggio del futuro prossimo. Altra eventuale risposta: un campione significativo di persone viene così sottoposto alla prima enorme sperimentazione globale, non solo gratuita per la multinazionale ma anche lautamente pagata (tutte le multinazionali del settore farmaceutico, dette Big Pharma, hanno aumentato nel 2020 i profitti fino al 40%. Alcuni dati: in media gli investimenti pubblici degli Stati hanno raggiunto oltre i 90 miliardi di euro, dei quali il 95% riguarda i vaccini contro il Covid-19 e solo il 5% le terapie. Il 32% dei fondi pubblici proviene dagli Stati Uniti, il 24% dalla UE e dai suoi stati membri e il 13% da Giappone e Corea del Sud. E’ a questa sperimentazione globale che servono i dati della popolazione israeliana, oltre a rappresentare una “materia prima” molto ambita da Big Tech? Israele ha comprato 10 milioni di dosi del vaccino da Oxford-AtraZeneca, 6 milioni di dosi da Pfizer e 6 milioni da Moderna e le ha utilizzate anche nei territori occupati. Ma solo per vaccinare la sua popolazione e i coloni illegali israeliani, che godono – a differenza dei palestinesi - di ogni diritto, compreso quello alla vita, diritto invece calpestato una volta di più se riguarda i palestinesi . Su questo fatto è di nuovo in atto il patto del silenzio su tutti i media. In qualsiasi paese del mondo sarebbe impensabile che le autorità vaccinassero un gruppo di popolazione, escludendone un altro che vive sullo stesso territorio. Invece nessuno parla dei 2,7 milioni di palestinesi di Cisgiordania e altri 2 milioni a Gaza che sono esposti al virus, con un’incidenza del 30% di infezioni e la morte, a gennaio, di 1.700 persone in territori già devastati da anni e anni di guerra guerreggiata e dal blocco israeliano, dove mancano non solo gli ospedali, i medici e le medicine, ma anche l’acqua potabile. I palestinesi riceveranno – non si sa se e quando – i vaccini raccolti dall’ONU attraverso il sistema Covax per i paesi poveri. Non sono stati vaccinati, fino ad una certa data, neppure i lavoratori palestinesi del settore sanitario, come ha richiesto l’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché secondo il governo israeliano non sono sua responsabilità (violando così anche l’art.56 della 4° Convenzione di Ginevra che attribuisce la responsabilità della salute della popolazione occupata all’occupante). Intanto sono state devastate alcune installazioni palestinesi per le vaccinazioni. Ma... c’è un ma. Non c’è bisogno di menzionare la “globalizzazione” per ricordare che israeliani e palestinesi vivono e lavorano gli uni accanto agli altri e che se una gran parte della popolazione non viene vaccinata il virus non si fermerà. Così il governo di Tel Aviv si è visto costretto – dopo un vergognoso dibattito alla Knesset - a fornire qualche migliaio di dosi (circa 5.000) da utilizzare per immunizzare almeno il personale sanitario e i pazienti a rischio della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Come si può definire un tale comportamento? Lo hanno già fatto lo storico e accademico israeliano Ilan Pappé e B’Tselem (organismo che si occupa dei “diritti umani”), dichiarando che da tempo Israele non è una democrazia che esercita una “occupazione temporanea”, ma “un solo regime dell’apartheid dal fiume Giordano al Mediterraneo, dove un gruppo di persone (gli ebrei) esercita la supremazia razziale sopra l’altro (i palestinesi)”. E come definire una politica che cerca attivamente di ridurre il numero della popolazione indesiderata – oltre che con le bombe delle varie missioni e la distruzione sistematica delle sue installazioni sanitarie e di igiene- lasciandola esposta ad un virus mortifero? Qualcuno – ad esempio l’ex presidente Jimmy Carter e il premio Nobel per la pace Desmond Tutu, un sudafricano che se ne intende – l’ha chiamato apartheid. Ma probabilmente “genocidio” è una definizione più calzante. Apartheid, il regime razzista di separazione delle popolazioni con differenze nei diritti e nei doveri. Quello applicato non solo dagli Stati Uniti ai ‘nativi’ americani chiusi nelle riserve, ma dal Sudafrica, grande amico di Israele e fornitore di uranio per le installazioni di Dimona, il sito nucleare più segreto al mondo. Apartheid, definito “crimine contro l’umanità” dallo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale, che, bontà sua, il 3 marzo scorso ha dichiarato la sua competenza ad aprire le indagini “sulla situazione in Palestina” a partire dal giugno 2014 (Operazione ‘Margine Protettivo’), quando “esiste una base ragionevole per credere che l’esercito israeliano abbia commesso crimini di guerra”. Così come in tutto il mondo Covid-19 ha strappato la maschera al capitalismo, mostrando il volto brutale di un sistema in cui il profitto ha il primato su tutto, compresa la vita – del pianeta e dei suoi abitanti - in Palestina il virus espone alla vista il razzismo sistematico del cane da guardia degli USA in Medio Oriente che, forte della sua posizione, non tenta neanche di nascondere le sue pratiche genocide più ributtanti. Nel 1995, abbattuto il regime razzista sudafricano e diventato presidente del paese, Nelson Mandela disse: “La nostra battaglia non sarà completa senza la libertà del popolo palestinese”. Parole che valgono ancor oggi. Combattiamo con ogni mezzo il mutismo e l’oblio sulla Palestina, non solo per dovere internazionalista ma perché è la strategia applicata contro ogni ribellione, contro ogni lotta, la strategia più difficile da combattere: il silenzio.
dicembre 2020 redazione
SMEV uccide
SMEV uccide, chiude, licenzia tutti i dipendenti e trasferisce la produzione A Vicenza il processo per la morte sul lavoro di Mariano Bianchin Mariano Bianchin è stato una delle 1104 vittime per infortunio sul lavoro di quell’anno, il 2016, non il peggiore. Morì schiacciato da una pressa, come altri. Le circostanze per cui quella pressa si azionò, mentre non doveva, vanno a totale carico dell’azienda (SMEV di Bassano delGrappa), i cui responsabili sono tanto più colpevoli in quanto hanno attuato modalità di lavoro con lo scopo di incrementare i ritmi di lavoro, violando ogni regola di sicurezza econsapevoli di farlo. Diciamolo a modo nostro: la ricerca di profitto, del massimo profitto da parte dei padroni ha mietuto un’altra vittima. Com’è classificabile nel diritto e perseguibile questo delitto? Ma, è un delitto la ricerca del massimo profitto? E viene perseguito dalla autorità giudiziaria? No, e non è nemmeno un capo di imputazione, in qualche raro caso può magari costituire un’aggravante, qualche soldo da sborsare in più, nel mercato della giustizia dei padroni. Non è un reato e mai ci sarà una condanna per un tale reato. Certo ce ne possono essere altri, la mancanza di tutele, l’incuria, la violazione della normativa di sicurezza, ma la circostanza che inchioda i responsabili alle loro colpe, ilmovente del delitto, non emerge. E se, per effetto di qualsiasi lontano evento, come la paura dell’intensificarsi della lotta di classe, fossero i padroni stessi o i loro maggiordomi ad affannarsi nel solito coro di È INAMMISSIBILE! È INCONCEPIBILE! È INACCETTABILE!, beh, allora lo farebbero per metterci una pietra sopra. Perché la ricerca del massimo profitto è il motore di questa società capitalista. I padroni non riconosceranno mai le loro responsabilità perché i morti di lavoro sono un semplice effetto collaterale, per quanto deprecabile, della loro attività. Il profitto non compare, è neutro, sembra non avere entità, è sacro e non si tocca. E così la curva crescente del grafico sui morti di lavoro incontra l’altra curva, altrettanto crescente, degli indici dei titoli azionari; non è paradossale? E i tribunali? E la legge? Limitano i danni. Non per noi, che ce li abbiamo già sul groppone, ma per loro. Amministrano la giustizia per i padroni, con magici giochi di equilibrio giuridico arrivano le prescrizioni (tante), abbondano le lentezze procedurali, le assoluzioni perché il fatto non sussiste, le consulenze di parte (sempre la loro), le porte chiuse e i riti abbreviati, le archiviazioni, tutto, proprio tutto l’armamentario del mercato della legge. La libera iniziativa economica non trova alcun limite, nemmeno quello della dignità e salute psicofisica di ogni lavoratore. Significativo di quanto fossero preoccupati i vertici (tedeschi) di SMEV per il processo in corso e sentenze che li riguardano (20 mesi ciascuno ai duetop manager tedeschi, pena sospesa), emerge dalla cronaca della settimana precedente l’udienza: SMEV chiude, licenzia tutti i 68 dipendenti e trasferisce la produzione. Meglio andare a spremere un po’ di più i lavoratori polacchi, fanno capire. Questi sono i padroni. Di fronte alle morti di lavoro non c’è riparazione, non può esserci ammenda, la contraddizione si eleva di potenza, da una parte il lavoro per vivere dignitosamente e in salute; dall’altra la vita come valore sacrificabile e sacrificato. Niente come queste morti mette a nudo questo sistema di sfruttamento. Di fronte alle vittime del profitto il padrone è nudo. E nuda è la sua giustizia. Per noi è il tempo dell’unità e della fratellanza tra lavoratori per la lotta: classe contro classe, sfruttati contro sfruttatori. “VOCI OPERAIE” Coordinamento lavoratrici e lavoratori alto vicentino
marzo redazione
da nu. 1
LA SOLIDARIETÀ È UN'ARMA 'Liberi dai decreti Salvini', 'Prato sta con gli operai' "Una manifestazione così a Prato non si vedeva da tempo". Così dicevano i pochi pratesi partecipanti al corteo di sabato 18 gennaio, ma neppure si era mai visto un così enorme spiegamento di polizia. I lavoratori del Si Cobas si erano mobilitati, con delegazioni provenienti da altre città, per rispondere alla repressione che ha colpito 21 operai della tintoria Superlativa: senza stipen-dio da 8 mesi e raggiunti da multe di 4000 euro ciascuno per aver protestato, secondo i decreti Salvini. Si Cobas che non è rimasto solo. Alla chiamata hanno risposto i sindacati di base (Cub-Cobas-USB), il Coordinamento lavoratori/lavoratrici autoconvocati per l'unità di classe, delegati di fabbriche come Piaggo di Pontedera e GKN di Firenze che fanno capo alla Fiom, i cassintegrati del Camping Cig di Piombino, alcuni rappresentanti dei centri sociali e di qualche forza politica, tranne ov-viamente il PD e la Cgil che si è pronunciata con un vergognoso comunicato. Voci "fuori dal coro" due consigliere comunali, alcuni iscritti alla Cgil, quella dell'ex sindaco di Montemurlo ed ex sindacalista Cgil Mauro Lorenzini che ha detto: "Non possiamo chiudere gli occhi difronte a queste situazioni e a forme di schiavismo sul lavoro che a Prato ci sono. Il mio partito, il Pd, deve aprire una riflessione vera e intervenire con maggiore decisione". Ancora ci crede? Una manifestazione contro la limitazione delle libertà democratico-borghesi anche in seguito alle decisioni del sindaco di Prato, il PD Matteo Biffoni che, con prefetto e questore, aveva stabilito un percorso di corteo di 700 metri negando la possibilità di snodarsi in centro e raggiungere il Comune. Che, in-vece, considerato il numero dei partecipanti, ha proseguito fino al Comune dove, ovviamente, alla fine dell'iniziativa la polizia ha affermato il suo pugno duro scagliandosi contro quelli rimasti in piazza. Il sindaco si infuria e chiede che il questore lasci la questura; il segretario provinciale del Pd Gabriele Bosi dice che "Questore e Prefetto devono rispon-dere dell’incapacità di gestire in modo serio e corretto quanto avvenuto oggi a Prato”, il consigliere regionale Nicola Ciolini sostiene che "chi aveva il com-pito di garantire l'ordine pubblico in città dovrà assumersi la responsabilità di quanto successo”. E, per non essere da meno, il deputato Antonello Giaco-melli, sottolineando la gravità di quanto accaduto, cioè del centro della città occupato da un corteo non autorizzato, si è impegnato a portare il fatto al Parlamento e al governo per l'avvicendamento di prefetto e questore. Tutte dichiarazioni che confermano che sul piano della repressione il PD può essere meglio della destra, infatti, nulla fa rispetto alla condizione di schiavi-smo degli operai pratesi, tantomeno delle sanzioni che devono pagare. È me-glio stare dalla parte degli imprenditori. Gli organizzatori sono soddisfatti per la riuscita della manifestazione. Ora si tratta di vedere se la solidarietà e l'unità di classe dimostrata in questa occa-sione sarà portata avanti dai responsabili del SìCobas in base ai comuni inte-ressi del movimento operaio e sindacale e non andrà dispersa a causa di po-sizioni settarie e di autorefenzialità. E restiamo anche in attesa degli sviluppi sul piano sindacale per portare avanti gli obiettivi che sono stati posti. Non basta una manifestazione per rispondere all'attacco padronale finalizzato a minare la capacità di azione e lotta di tutti i lavoratori, per fare avere i salari arretrati agli operai, per risolvere il problema delle sanzioni e la richiesta del-l'abolizione dei decreti Salvini per i quali non basterà certo la sola attività sin-dacale. I lavoratori di Prato devono fare i conti con i padroni normali, con i padroni che operano fuori dalla "legalità" legati a varie mafie, che usano il lavoro nero senza rispetto dei contratti e di ogni norma sulla sicurezza, che abusano della mano d'opera immigrata. Devono fare i conti con una CGIL che sa, ma non interviene e copre queste forme di supersfuttamento, legata com'è ad una amministrazione locale a guida PD che non vuole "rompere gli equilibri" con-solidati nell'economia pratese, che invoca maggiore repressione poliziesca contro i lavoratori mentre copre sfruttamento e il supersfruttamento che si a-limentano a vicenda e comunque fanno "ricchezza" per la città.