maggio 2021 redazione
Strage Viareggio: sottoscrizione
Strage Viareggio: sottoscrizione spese legali RLS processo Non eravamo soli in quelle aule di tribunale 100.000 volte grazie (e anche di più) Viareggio, 1° maggio 2021. Non eravamo soli. Oggi nella data simbolo per tutti i lavoratori, possiamo dirlo forte. Al nostro fianco come Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, in quelle aule dei tribunali sui banchi delle parti civili, per quasi dieci anni, oltre ai familiari delle vittime, c’erano migliaia di altri ferrovieri, lavoratrici e lavoratori, disoccupati, pensionati di ogni settore, semplici cittadini, sindacati, associazioni, collettivi e personalità della cultura. Lo dimostra la straordinaria partecipazione delle circa 3.000 persone che, sensibili a quella tragedia e ai temi della sicurezza, hanno contribuito individualmente oppure in forma organizzata al difficile traguardo di questa sottoscrizione solidale per raggiungere la somma di circa 80.000 euro per le spese legali e processuali che siamo stati chiamati a versare sulla base del dispositivo della sentenza della Corte di cassazione dell’8 gennaio scorso, provvedimento che ci ha delegittimato quali parti civili ribaltando le decisioni conformi di primo e secondo grado. Vogliamo ringraziarvi tutte e tutti, una ad uno, dal disoccupato che, con imbarazzo ma grande dignità, ha contribuito consegnando a mano cinque euro in monete, scusandosi per la modestia della cifra a tutti coloro che hanno contribuito, ciascuno secondo le proprie possibilità e sensibilità, con somme più o meno alte ma con identico spirito di solidarietà. Un grazie particolare alla Cassa di Solidarietà tra ferrovieri e alle compagne e compagni di lavoro che la gestiscono, poiché fin dal primo momento, ci hanno sostenuto e accompagnati anche nell’organizzazione di questa sottoscrizione nonché all’Assemblea 29 giugno, instancabile motore di mobilitazione per ogni iniziativa organizzata in questi lunghi 12 anni e alla rivista Ancora In Marcia!, insostituibile strumento di informazione democratica autogestita. Nella straordinaria partecipazione si legge anche la consapevolezza diffusa di dover far fronte collettivamente ad una sentenza ingiusta, per respingere con l’arma della solidarietà, il tentativo di tenere fuori i lavoratori dai grandi processi i tema di salute e sicurezza del lavoro, riguardanti gli impianti industriali di ogni genere, sulla base della ‘minaccia’ economica. Un traguardo non scontato, che sul piano personale ci solleva dall’insostenibile peso economico delle ingenti spese; su quello politico e sociale dimostra l’esistenza di una vasta sensibilità diffusa e il bisogno di partecipazione in larghi settori del nostro paese. Un risultato così positivo che ci fornisce anche le risorse per proseguire – non appena avremo letto le motivazioni della sentenza – nel nostro impegno, eventualmente anche nel percorso giudiziario, utilizzando tutti gli strumenti messi a disposizione delle leggi, nazionali e comunitarie. Quello manifestato dalla Cassazione nel processo Viareggio, è infatti un orientamento giuridico, dal sapore reazionario, che guarda al passato poiché tende a marginalizzare le istanze dei lavoratori dai processi. È bene esserne consapevoli e pronti a contrastarlo, sia con gli strumenti giuridici a nostra disposizione che, soprattuto, con quelli della partecipazione, del dibattito, dell’iniziativa politica e della mobilitazione. Nel comunicare che la sottoscrizione ha raggiunto e superato la soglia dei 100.000 euro, ed è arrivata alla straordinaria cifra di 135.311,69 Euro, pubblichiamo il rendiconto dettagliato dei partecipanti e quello aggregato delle somme versate. Quanto raccolto sarà impiegato per soddisfare prioritariamente le richieste già presentate dai legali di FS per le ‘spese legali’, che ammontano esattamente a € 11.997,22 per ciascuno di noi sei. Invece le ‘spese processuali’ cui siamo stati condannati dalla Corte di Cassazione – in assenza delle motivazioni – non sono ancora determinate.  Molti singoli e realtà organizzate ci hanno comunicato che hanno appena versato o che intendono versare nei prossimi giorni: il conto corrente e la sottoscrizione restano quindi aperti e il 29 giugno 2021, in occasione del 12° anniversario della strage, pubblicheremo il terzo rendiconto. Una volta soddisfatti gli ‘obblighi giudiziari’ tutte le somme eccedenti, alla luce delle motivazioni della sentenza, le destineremo all’eventuale proseguimento del percorso giudiziario relativo alla strage di Viareggio, a iniziative di solidarietà in tema di salute e sicurezza del lavoro e del trasporto ferroviario, e a tutela di lavoratori e ambiti oggetto di repressione, versandole alla Cassa di Solidarietà tra ferrovieri, quale strumento di tutela collettiva, il cui motto è “La solidarietà è il primo passo verso la libertà”. Ancora un grande grazie a tutte e tutti voi. Alessandro Pellegatta, Dante De Angelis, Filippo Cufari, Giuseppe Pinto, Maurizio Giuntini e Vincenzo Cito
maggio 2021 redazione
Mumia Abu-Jamal, 40 dietro le sbarre
Di fronte all'attuale situazione, i suoi sostenitori chiedono la mobilitazione internazionale perché è una questione di vita o di morte. Per il medico Ricardo Alvarez: "il suo rilascio è l'unico trattamento" che impedirebbe il peggio Mumia Abu-Jamal, quarant'anni dietro le sbarre Quella di Mumia Abu-Jamal è una vita quasi completamente priva della libertà. Arrestato a 27 anni, accusato della morte di un poliziotto bianco, oggi ne ha 67. Quarant'anni spesi a rivendicare la sua innocenza, è senza dubbio uno dei detenuti americani incarcerati da più tempo, e spera ancora di tornare a casa. Mumia Abu-Jamal, un giornalista afroamericano vicino alle Pantere Nere, impegnato a combattere la segregazione, ha visto la sua vita sconvolta nel dicembre 1981. All'epoca era un tassista notturno per sfamare la sua famiglia. All'alba del 9 dicembre lascia un cliente in un quartiere meridionale di Philadelphia, Pennsylvania, incappa in una sparatoria e viene ferito. Nella sparatoria viene ucciso un poliziotto bianco, Daniel Faulkner: Mumia Abu-Jamal è accusato dell'omicidio. Malgrado la mancanza di prove e un'indagine fallimentare, Mumia Abu-Jamal viene condannato a morte il 3 luglio 1982. Grazie alla mobilitazione internazionale e americana, è sfuggito all'esecuzione due volte, nel 1995 e nel 1999. Nel dicembre 2001 la sua condanna a morte viene sospesa, anche se resta rinchiuso nel braccio della morte. Dopo 34 anni di carcere, 30 dei quali sperando di sfuggire all'iniezione letale, la condanna di Mumia Abu-Jamal è stata commutata in ergastolo senza possibilità di libertà vigilata. Nel 2011 viene mandato alla prigione di Mahanoy, a due ore e mezza di macchina da Filadelfia. Mumia Abu-Jamal è ancora lì. Il detenuto AM8335 entra nel suo quarantesimo anno di detenzione. La speranza in nuovo ricorso Il primo mercoledì di ogni mese da trentacinque anni, a Parigi, in Place de la Concorde, a poche centinaia di metri dall'ambasciata americana, il nome di Mumia Abul-Jamal viene esposto su grandi striscioni appesi al muro del giardino delle Tuileries. Jacky Hortaut, membro del collettivo Libérons Mumia e della Coalizione mondiale contro la pena di morte, ha visitato Mumia Abul-Jamal un anno fa. Da allora, solo l'avvocato Johanna Fernandez ha potuto entrare in contatto con il prigioniero. Direi che siamo arrivati al penultimo passo, un momento importante del lungo processo giudiziario. Sono quarant'anni che va avanti così, e finora Mumia non ha mai ottenuto un appello per la condanna a morte. Adesso è possibile dato che il tribunale della Pennsylvania ha respinto l'appello che ha bloccato [la sua difesa] nel dicembre 2020. E se si tenesse un nuovo processo per difendere la sua innocenza, sarebbe in gioco il rilascio di Mumia Abul-Jamal. Jacky Hortaut spera che il processo giudiziario proceda a favore del detenuto. Anche il contesto nazionale americano si è evoluto dopo la morte dell'afroamericano George Floyd soffocato sotto il peso del ginocchio di un poliziotto di Minneapolis. Un evento tragico che ha infuocato gli Stati Uniti per dieci giorni. Anche a Philadelphia ci sono state manifestazioni. Ed è stata un'opportunità per i sostenitori di Mumia Abu-Jamal di chiedere il suo rilascio. Una nuova speranza? È incredibile. Il governatore ha il diritto di grazia. Se prendesse questa decisione, Mumia potrebbe accettarla perché pensa solo a una cosa, tornare a casa, dove sua moglie, i suoi figli, i suoi nipoti lo aspettano da quarant'anni. Il caso di Mumia Abu-Jamal tornerà quindi nell'ambito giudiziario, ma non è ancora in calendario. E nell'immediato futuro, ciò che preoccupa Jacky Hortaut è ciò che sta accadendo attualmente nella prigione di Philadelphia, dove a 2.500 prigionieri è vietato il contatto esterno a causa della pandemia di coranavirus. Le uniche persone che entrano ed escono sono le guardie, e attraverso questo andirivieni la pandemia si diffonde. Tutti hanno paura. Questo è quello che ha detto Mumia. Non abbiamo notizie quotidiane, ma la sua portavoce Johanna Fernandez ci ha detto un mese fa che Mumia non aveva il Covid ma che c'erano forti timori che il virus si sarebbe diffuso nel carcere. Collettivamente e per se stesso, Mumia Abu-Jamal teme la pandemia. In quattro decenni di prigione, la sua salute è peggiorata. In particolare, è diventato più fragile dopo essere stato infettato dall'epatite C. Nel 2015 l'amministrazione penitenziaria gli ha negato l'accesso alle cure per la malattia. Dopo 12 mesi durante i quali la sua condizione si è indebolita, Mumia Abu-Jamal è stato curato, grazie, ancora una volta, alle pressioni dell'opinione pubblica. In quel momento disse: Amici e fratelli miei, non è finita. Le cose forse si stanno muovendo e la possibilità di una vera cura, non solo dei sintomi ma della malattia stessa, è in vista. Grazie a tutti voi per essere sempre al mio fianco. La libertà è una lotta quotidiana. Vi amo tutti. Vostro fratello, da così lungo tempo nel braccio della morte. Salute fragile, morale ferrea Mumia Abu-Jamal ha avuto altre complicazioni di salute, come la cirrosi epatica che il direttore del carcere ha rifiutato di curare. Secondo lui, il trattamento sarebbe costato centinaia di migliaia di dollari... Ma quando ha compiuto 60 anni, dopo aver trascorso metà della sua vita non solo in prigione ma anche in isolamento, Mumia Abu-Jamal ha impressionato per la sua robustezza. Fisicamente imponente e forte, il volto incorniciato dai dread, una testa piena di ideali, di convinzioni, di umanità e di lotte per la giustizia. Prima di essere incarcerato, Mumia Abu-Jamal era un giornalista e attivista per i diritti dei neri. Ha anche denunciato la corruzione che affliggeva la polizia di Filadelfia. Ha continuato i suoi impegni nel mondo carcerario. Ha aiutato i detenuti a risolvere i loro problemi e ad affrontare le procedure amministrative e legali. Li ascolta, li stimola, li consiglia. I detenuti lo hanno soprannominato "Vecchio" o "Saggio". Mumia Abu-Jamal ha scritto numerosi libri e articoli sulle condizioni di detenzione, sulla realtà del braccio della morte e sui suicidi dei detenuti. La stampa americana lo ha soprannominato "The Voice of the Voiceless". È diventato un simbolo negli Stati Uniti e nel mondo. Dopo quattro decenni di prigionia, Mumia Abu-Jamal ha scritto un nuovo saggio. È in uscita il suo terzo libro sui risvolti politici del capitalismo. La scrittura gli permette una coscienza da uomo libero, nell'attesa di respirare l'aria di fuori. Al momento, a causa di Covid-19, rimane rinchiuso 23 ore al giorno. Così ha solo un'ora per la doccia, una telefonata, uscire dalla cella. Nuovo isolamento Questo isolamento non è la prima volta per Mumia Abu-Jamal. È sopravvissuto trent'anni nel braccio della morte. 10.950 giorni, da solo in una cella grande come un bagno, cercando di dimenticare che il giorno dopo poteva essere l'ultimo della sua vita. "È un modello per tutti gli attivisti", dice Claude Guillaumaud-Pujol, accademico e specialista degli Stati Uniti, autore di diversi libri tra cui Mumia Abu-Jamal, combattant de la liberté (Edizioni Le Temps des Cerises). È iperattivo, lavora tutto il tempo. Scrive, scrive, scrive. Ha una forza di carattere senza pari. Si preoccupa molto degli altri. Preferisce parlare di loro piuttosto che di se stesso, tranne quando è preoccupato per la sua salute. Non si lamenta mai. Ammiro il modo in cui tiene duro". Crede nella forza della verità. È rimasto in prigione perché si rifiuta di confessare un omicidio che non ha commesso. Sa che alla fine uscirà. Da allora sono stati realizzati e continuano ad uscire diversi lungometraggi e documentari su Mumia Abu-Jamal. Presto la HBO pubblicherà un film sulla sua famiglia. Un altro regista mostrerà sullo schermo il procuratore distrettuale di Philadelphia Larry Krasner e figure chiave della città della Pennsylvania che guidano la polizia e il sistema giudiziario. Il procuratore distrettuale sta perdendo interesse nel caso di Mumia. Lascerà che l'appello per un nuovo processo vada avanti. Il problema è che i poliziotti non vogliono un nuovo processo perché si possono dire cose che non vogliono sentire. "Mentre rileggevo i rapporti, ho pensato: non si dovrebbe spostare il dibattito su chi ha ucciso l'agente Faulkner? Perché se lo troviamo, automaticamente Mumia è assolto. Il poliziotto era nei guai, come suggerito dal suo protetto, che ha parlato del suo aspetto tormentato? Faulkner era un informatore dell'FBI? Stava conducendo un'indagine federale sulla polizia di Philadelphia, uno dei dipartimenti di polizia più corrotti del paese? Quali erano i problemi all'interno del dipartimento di polizia? Dopo il processo di Mumia, sono stati arrestati 15 agenti di polizia. Faulkner si è rifiutato di farsi corrompere? Davvero, scoprire chi ha sparato e ucciso Daniel Faulkner scagionerebbe Mumia e gli renderebbe la libertà". Contesto di supporto Claude Guillaumaud-Pujol non vede Mumia Abu-Jamal da dicembre 2018. Data a partire dalla quale le autorizzazioni di visita sono state sospese. "È invecchiato, sta perdendo i capelli, è ingrassato a causa del cattivo cibo, non può più fare sport come una volta. Ma è sereno, sempre sereno, straordinariamente sereno". Lo studioso fa affidamento sull'attuale contesto americano per aiutare a far uscire di prigione Mumia Abu-Jamal. Oltre all'uccisione mortale della polizia di George Floyd e all'arrivo di una nuova leadership democratica alla Casa Bianca, l'atmosfera a Philadelphia sta cambiando. Negli ultimi due anni, tutti i membri del Movimento - un'organizzazione rivoluzionaria fondata negli anni '70 per contrastare le ingiustizie contro i neri - sono stati rilasciati, contro ogni previsione. Vittime di numerose persecuzioni, erano state falsamente accusate della morte di un agente di polizia. Cinque uomini e quattro donne erano all'ergastolo. Un altro sviluppo ottimistico, sono le scuse avanzate dal consiglio comunale di Philadelphia per il massacro e il bombardamento del quartiere dove il movimento viveva il 13 novembre 1985. Ha deciso di tenere una giornata di riflessione a Philadelphia il 13 maggio. Scrivo il tuo nome Sebbene non avesse precedenti giudiziari, abbia negato i fatti, le perizie balistiche siano inesistenti, le indagini siano state affrettate, i testimoni siano stati minacciati, le denunce della polizia siano state subornate e contraddittorie e i suoi diritti di difesa siano stati violati, Mumia Abu-Jamal è convinto che la libertà gli sarà restituita dalla giustizia del suo Paese dopo tanti anni dietro le sbarre. Fuori, la sua reputazione si sta diffondendo, dagli Stati Uniti al Canada, dall'Africa all'Europa. I suoi sostenitori esterni non si arrendono, anche se il tempo ha reso rare le mobilitazioni su larga scala che hanno ripetutamente salvato Mumia Abu-Jamal. Nel 2000, in un rapporto Amnesty International indicava 70 motivi per riavviare il suo processo. A Mumia Abu-Jamal è stata riconosciuta la cittadinanza onoraria di 26 comuni francesi: Parigi, Clermont-Ferrand, Sète, Auby, Portes-lès-Valence e Saint-Anne, per citarne solo alcuni. Altrove nel mondo, altri comuni in Danimarca, Quebec, Italia e Stati Uniti hanno sostenuto Mumia Abu-Jamal e scritto il suo nome affinché non venga dimenticato. Nadine Epstain |  franceculture.fr Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare 08/01/2021
marzo 2021 redazione
Palestina
Il grande silenzio: il Covid in Palestina e in Israele Daniela Trollio È in atto un nuovo patto del silenzio su tutti i media Israele sembra essere il paese dei primati: più di 50 anni di occupazione coloniale della Palestina senza che nessuno abbia mai pensato di difendere i diritti umani dei palestinesi; ha un arsenale che va dalle 80 alle 200 bombe atomiche (oltre a quelle chimiche e biologiche) senza aver mai ricevuto una visita dell’AIEA; ha creato il più grande campo di concentramento mondiale a cielo aperto a Gaza. Ora può vantare un altro record: con più di 2,7 milioni di persone (israeliane) vaccinate con la prima dose del vaccino Pfizer (su una popolazione di circa 9 milioni) e 500.000 che hanno ricevuto la seconda dose, è diventato il campione delle vaccinazioni contro il Covid-19 grazie ad un contratto esclusivo con la multinazionale Pfizer. Peccato che la grancassa mediatica dimentichi alcune cose: Israele è una società militarizzata e informatizzata, il controllo dei cittadini e dei non-cittadini è minuzioso e sistematico, la violazione dei diritti civili in nome della sicurezza è “normale”. Andiamo avanti. Domanda: come mai la Pfizer favorisce un piccolo paese mentre non rispetta i contratti con la ben più grande Unione Europea? Qualche risposta: secondo i mezzi di informazione israeliani, il governo israeliano ha pagato le dosi di vaccino Pfizer anche il 50 % in più del prezzo normale (68 dollari circa, mentre gli USA ne pagano 19). Ma non solo: il governo concede a Pfizer l’accesso ai dati medici e statistici della propria popolazione. Quali dati? Non si sa, perché il contratto è stato sì pubblicato sotto la pressione dei mezzi di informazione, ma è in gran parte secretato. Tra l’altro la cessione dei dati personali dei propri cittadini e quelli dei non-cittadini (i palestinesi) ad un gigante farmaceutico il cui scopo è – ricordiamolo sempre – fare profitti per i suoi azionisti, non rappresenta certo un esempio di lotta al virus, ma un sinistro assaggio del futuro prossimo. Altra eventuale risposta: un campione significativo di persone viene così sottoposto alla prima enorme sperimentazione globale, non solo gratuita per la multinazionale ma anche lautamente pagata (tutte le multinazionali del settore farmaceutico, dette Big Pharma, hanno aumentato nel 2020 i profitti fino al 40%. Alcuni dati: in media gli investimenti pubblici degli Stati hanno raggiunto oltre i 90 miliardi di euro, dei quali il 95% riguarda i vaccini contro il Covid-19 e solo il 5% le terapie. Il 32% dei fondi pubblici proviene dagli Stati Uniti, il 24% dalla UE e dai suoi stati membri e il 13% da Giappone e Corea del Sud. E’ a questa sperimentazione globale che servono i dati della popolazione israeliana, oltre a rappresentare una “materia prima” molto ambita da Big Tech? Israele ha comprato 10 milioni di dosi del vaccino da Oxford-AtraZeneca, 6 milioni di dosi da Pfizer e 6 milioni da Moderna e le ha utilizzate anche nei territori occupati. Ma solo per vaccinare la sua popolazione e i coloni illegali israeliani, che godono – a differenza dei palestinesi - di ogni diritto, compreso quello alla vita, diritto invece calpestato una volta di più se riguarda i palestinesi . Su questo fatto è di nuovo in atto il patto del silenzio su tutti i media. In qualsiasi paese del mondo sarebbe impensabile che le autorità vaccinassero un gruppo di popolazione, escludendone un altro che vive sullo stesso territorio. Invece nessuno parla dei 2,7 milioni di palestinesi di Cisgiordania e altri 2 milioni a Gaza che sono esposti al virus, con un’incidenza del 30% di infezioni e la morte, a gennaio, di 1.700 persone in territori già devastati da anni e anni di guerra guerreggiata e dal blocco israeliano, dove mancano non solo gli ospedali, i medici e le medicine, ma anche l’acqua potabile. I palestinesi riceveranno – non si sa se e quando – i vaccini raccolti dall’ONU attraverso il sistema Covax per i paesi poveri. Non sono stati vaccinati, fino ad una certa data, neppure i lavoratori palestinesi del settore sanitario, come ha richiesto l’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché secondo il governo israeliano non sono sua responsabilità (violando così anche l’art.56 della 4° Convenzione di Ginevra che attribuisce la responsabilità della salute della popolazione occupata all’occupante). Intanto sono state devastate alcune installazioni palestinesi per le vaccinazioni. Ma... c’è un ma. Non c’è bisogno di menzionare la “globalizzazione” per ricordare che israeliani e palestinesi vivono e lavorano gli uni accanto agli altri e che se una gran parte della popolazione non viene vaccinata il virus non si fermerà. Così il governo di Tel Aviv si è visto costretto – dopo un vergognoso dibattito alla Knesset - a fornire qualche migliaio di dosi (circa 5.000) da utilizzare per immunizzare almeno il personale sanitario e i pazienti a rischio della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Come si può definire un tale comportamento? Lo hanno già fatto lo storico e accademico israeliano Ilan Pappé e B’Tselem (organismo che si occupa dei “diritti umani”), dichiarando che da tempo Israele non è una democrazia che esercita una “occupazione temporanea”, ma “un solo regime dell’apartheid dal fiume Giordano al Mediterraneo, dove un gruppo di persone (gli ebrei) esercita la supremazia razziale sopra l’altro (i palestinesi)”. E come definire una politica che cerca attivamente di ridurre il numero della popolazione indesiderata – oltre che con le bombe delle varie missioni e la distruzione sistematica delle sue installazioni sanitarie e di igiene- lasciandola esposta ad un virus mortifero? Qualcuno – ad esempio l’ex presidente Jimmy Carter e il premio Nobel per la pace Desmond Tutu, un sudafricano che se ne intende – l’ha chiamato apartheid. Ma probabilmente “genocidio” è una definizione più calzante. Apartheid, il regime razzista di separazione delle popolazioni con differenze nei diritti e nei doveri. Quello applicato non solo dagli Stati Uniti ai ‘nativi’ americani chiusi nelle riserve, ma dal Sudafrica, grande amico di Israele e fornitore di uranio per le installazioni di Dimona, il sito nucleare più segreto al mondo. Apartheid, definito “crimine contro l’umanità” dallo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale, che, bontà sua, il 3 marzo scorso ha dichiarato la sua competenza ad aprire le indagini “sulla situazione in Palestina” a partire dal giugno 2014 (Operazione ‘Margine Protettivo’), quando “esiste una base ragionevole per credere che l’esercito israeliano abbia commesso crimini di guerra”. Così come in tutto il mondo Covid-19 ha strappato la maschera al capitalismo, mostrando il volto brutale di un sistema in cui il profitto ha il primato su tutto, compresa la vita – del pianeta e dei suoi abitanti - in Palestina il virus espone alla vista il razzismo sistematico del cane da guardia degli USA in Medio Oriente che, forte della sua posizione, non tenta neanche di nascondere le sue pratiche genocide più ributtanti. Nel 1995, abbattuto il regime razzista sudafricano e diventato presidente del paese, Nelson Mandela disse: “La nostra battaglia non sarà completa senza la libertà del popolo palestinese”. Parole che valgono ancor oggi. Combattiamo con ogni mezzo il mutismo e l’oblio sulla Palestina, non solo per dovere internazionalista ma perché è la strategia applicata contro ogni ribellione, contro ogni lotta, la strategia più difficile da combattere: il silenzio.
dicembre 2020 redazione
SMEV uccide
SMEV uccide, chiude, licenzia tutti i dipendenti e trasferisce la produzione A Vicenza il processo per la morte sul lavoro di Mariano Bianchin Mariano Bianchin è stato una delle 1104 vittime per infortunio sul lavoro di quell’anno, il 2016, non il peggiore. Morì schiacciato da una pressa, come altri. Le circostanze per cui quella pressa si azionò, mentre non doveva, vanno a totale carico dell’azienda (SMEV di Bassano delGrappa), i cui responsabili sono tanto più colpevoli in quanto hanno attuato modalità di lavoro con lo scopo di incrementare i ritmi di lavoro, violando ogni regola di sicurezza econsapevoli di farlo. Diciamolo a modo nostro: la ricerca di profitto, del massimo profitto da parte dei padroni ha mietuto un’altra vittima. Com’è classificabile nel diritto e perseguibile questo delitto? Ma, è un delitto la ricerca del massimo profitto? E viene perseguito dalla autorità giudiziaria? No, e non è nemmeno un capo di imputazione, in qualche raro caso può magari costituire un’aggravante, qualche soldo da sborsare in più, nel mercato della giustizia dei padroni. Non è un reato e mai ci sarà una condanna per un tale reato. Certo ce ne possono essere altri, la mancanza di tutele, l’incuria, la violazione della normativa di sicurezza, ma la circostanza che inchioda i responsabili alle loro colpe, ilmovente del delitto, non emerge. E se, per effetto di qualsiasi lontano evento, come la paura dell’intensificarsi della lotta di classe, fossero i padroni stessi o i loro maggiordomi ad affannarsi nel solito coro di È INAMMISSIBILE! È INCONCEPIBILE! È INACCETTABILE!, beh, allora lo farebbero per metterci una pietra sopra. Perché la ricerca del massimo profitto è il motore di questa società capitalista. I padroni non riconosceranno mai le loro responsabilità perché i morti di lavoro sono un semplice effetto collaterale, per quanto deprecabile, della loro attività. Il profitto non compare, è neutro, sembra non avere entità, è sacro e non si tocca. E così la curva crescente del grafico sui morti di lavoro incontra l’altra curva, altrettanto crescente, degli indici dei titoli azionari; non è paradossale? E i tribunali? E la legge? Limitano i danni. Non per noi, che ce li abbiamo già sul groppone, ma per loro. Amministrano la giustizia per i padroni, con magici giochi di equilibrio giuridico arrivano le prescrizioni (tante), abbondano le lentezze procedurali, le assoluzioni perché il fatto non sussiste, le consulenze di parte (sempre la loro), le porte chiuse e i riti abbreviati, le archiviazioni, tutto, proprio tutto l’armamentario del mercato della legge. La libera iniziativa economica non trova alcun limite, nemmeno quello della dignità e salute psicofisica di ogni lavoratore. Significativo di quanto fossero preoccupati i vertici (tedeschi) di SMEV per il processo in corso e sentenze che li riguardano (20 mesi ciascuno ai duetop manager tedeschi, pena sospesa), emerge dalla cronaca della settimana precedente l’udienza: SMEV chiude, licenzia tutti i 68 dipendenti e trasferisce la produzione. Meglio andare a spremere un po’ di più i lavoratori polacchi, fanno capire. Questi sono i padroni. Di fronte alle morti di lavoro non c’è riparazione, non può esserci ammenda, la contraddizione si eleva di potenza, da una parte il lavoro per vivere dignitosamente e in salute; dall’altra la vita come valore sacrificabile e sacrificato. Niente come queste morti mette a nudo questo sistema di sfruttamento. Di fronte alle vittime del profitto il padrone è nudo. E nuda è la sua giustizia. Per noi è il tempo dell’unità e della fratellanza tra lavoratori per la lotta: classe contro classe, sfruttati contro sfruttatori. “VOCI OPERAIE” Coordinamento lavoratrici e lavoratori alto vicentino
marzo redazione
da nu. 1
LA SOLIDARIETÀ È UN'ARMA 'Liberi dai decreti Salvini', 'Prato sta con gli operai' "Una manifestazione così a Prato non si vedeva da tempo". Così dicevano i pochi pratesi partecipanti al corteo di sabato 18 gennaio, ma neppure si era mai visto un così enorme spiegamento di polizia. I lavoratori del Si Cobas si erano mobilitati, con delegazioni provenienti da altre città, per rispondere alla repressione che ha colpito 21 operai della tintoria Superlativa: senza stipen-dio da 8 mesi e raggiunti da multe di 4000 euro ciascuno per aver protestato, secondo i decreti Salvini. Si Cobas che non è rimasto solo. Alla chiamata hanno risposto i sindacati di base (Cub-Cobas-USB), il Coordinamento lavoratori/lavoratrici autoconvocati per l'unità di classe, delegati di fabbriche come Piaggo di Pontedera e GKN di Firenze che fanno capo alla Fiom, i cassintegrati del Camping Cig di Piombino, alcuni rappresentanti dei centri sociali e di qualche forza politica, tranne ov-viamente il PD e la Cgil che si è pronunciata con un vergognoso comunicato. Voci "fuori dal coro" due consigliere comunali, alcuni iscritti alla Cgil, quella dell'ex sindaco di Montemurlo ed ex sindacalista Cgil Mauro Lorenzini che ha detto: "Non possiamo chiudere gli occhi difronte a queste situazioni e a forme di schiavismo sul lavoro che a Prato ci sono. Il mio partito, il Pd, deve aprire una riflessione vera e intervenire con maggiore decisione". Ancora ci crede? Una manifestazione contro la limitazione delle libertà democratico-borghesi anche in seguito alle decisioni del sindaco di Prato, il PD Matteo Biffoni che, con prefetto e questore, aveva stabilito un percorso di corteo di 700 metri negando la possibilità di snodarsi in centro e raggiungere il Comune. Che, in-vece, considerato il numero dei partecipanti, ha proseguito fino al Comune dove, ovviamente, alla fine dell'iniziativa la polizia ha affermato il suo pugno duro scagliandosi contro quelli rimasti in piazza. Il sindaco si infuria e chiede che il questore lasci la questura; il segretario provinciale del Pd Gabriele Bosi dice che "Questore e Prefetto devono rispon-dere dell’incapacità di gestire in modo serio e corretto quanto avvenuto oggi a Prato”, il consigliere regionale Nicola Ciolini sostiene che "chi aveva il com-pito di garantire l'ordine pubblico in città dovrà assumersi la responsabilità di quanto successo”. E, per non essere da meno, il deputato Antonello Giaco-melli, sottolineando la gravità di quanto accaduto, cioè del centro della città occupato da un corteo non autorizzato, si è impegnato a portare il fatto al Parlamento e al governo per l'avvicendamento di prefetto e questore. Tutte dichiarazioni che confermano che sul piano della repressione il PD può essere meglio della destra, infatti, nulla fa rispetto alla condizione di schiavi-smo degli operai pratesi, tantomeno delle sanzioni che devono pagare. È me-glio stare dalla parte degli imprenditori. Gli organizzatori sono soddisfatti per la riuscita della manifestazione. Ora si tratta di vedere se la solidarietà e l'unità di classe dimostrata in questa occa-sione sarà portata avanti dai responsabili del SìCobas in base ai comuni inte-ressi del movimento operaio e sindacale e non andrà dispersa a causa di po-sizioni settarie e di autorefenzialità. E restiamo anche in attesa degli sviluppi sul piano sindacale per portare avanti gli obiettivi che sono stati posti. Non basta una manifestazione per rispondere all'attacco padronale finalizzato a minare la capacità di azione e lotta di tutti i lavoratori, per fare avere i salari arretrati agli operai, per risolvere il problema delle sanzioni e la richiesta del-l'abolizione dei decreti Salvini per i quali non basterà certo la sola attività sin-dacale. I lavoratori di Prato devono fare i conti con i padroni normali, con i padroni che operano fuori dalla "legalità" legati a varie mafie, che usano il lavoro nero senza rispetto dei contratti e di ogni norma sulla sicurezza, che abusano della mano d'opera immigrata. Devono fare i conti con una CGIL che sa, ma non interviene e copre queste forme di supersfuttamento, legata com'è ad una amministrazione locale a guida PD che non vuole "rompere gli equilibri" con-solidati nell'economia pratese, che invoca maggiore repressione poliziesca contro i lavoratori mentre copre sfruttamento e il supersfruttamento che si a-limentano a vicenda e comunque fanno "ricchezza" per la città.
marzo redazione
da nu. 1
SESTO SAN GIOVANNI: IMPEDITO LO SGOMBERO Per la casa contro gli sfratti. No alla guerra contro i poveri. La lotta (per ora) paga Martedì 21 gennaio, in via Gilberto Levi 22 a Sesto San Giovanni, un centinaio di compagni solidali in presidio ha impedito lo sfratto di una famiglia proleta-ria in sublocazione provocato dall’Amministrazione comunale. Ancora una vol-ta la lotta ha pagato, la polizia presente insieme all’ufficiale giudiziario per lo sgombero prendendo atto della numerosa partecipazione al picchetto ha ri-mandato l’esecuzione per motivi di ordine pubblico. La famiglia sfrattata con bambini ha avuto la proroga fino al 12 marzo. La mobilitazione e il presidio organizzato dal Centro di Iniziativa Proletaria “Giambattista Tagarelli” di Sesto San Giovanni e dall’Unione Inquilini Nord Milano è proseguita poi con una conferenza stampa sotto il palazzo comunale in piazza della Resistenza. Sono intervenuti Michele Michelino (Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli), l’avvocato Gianluigi Montalto e Marco De Guio (Unione Inquilini), Moni Ovadia, e hanno portato la loro solidarietà anche don Gino Rigoldi e don Virginio Colmegna Presidente fondazione Casa della carità. Gli organizzatori hanno denunciato in un documento che: “L’Amministrazione ha già tentato di sfrattare le famiglie che la precedente Giunta aveva ricove-rato in subaffitto e nei residence in attesa di un’assegnazione in emergenza, ma l’aveva fatto in modo maldestro e illegale, per cui eravamo riusciti a bloc-care gli escomi. Ora Sindaco e Assessore sono tornati alla carica concordando con i proprietari di case l’interruzione anticipata dei contratti e rifiutando il pagamento del do-vuto ai residenti, anche se le famiglie ospiti continuano a pagare la loro pi-gione mensile. Nei prossimi mesi se non metteremo in atto le iniziative necessarie, più di 40 famiglie saranno buttate in mezzo alla strada con decine di bambini piccoli, che pagheranno le conseguenze più gravi di una politica abitativa del Comune basata sulla disumanità e la discriminazione. La Regione ha previsto che le pratiche di assegnazione in corso siano portate a termine, ma a Sesto la legge non è rispettata, la graduatoria delle emer-genze nella quale sono collocate le famiglie non viene attivata, gli alloggi provvisori non sono messi a disposizione e gli affitti di alloggi privati finanziati con fondi regionali per impedire lo sfratto senza soluzioni non vengono stipu-lati. Il prossimo 26 febbraio è previsto lo sgombero del Residence Puccini e nove famiglie finiranno in strada, anche se stanno pagando il canone, perché il Comune si è trattenuto i soldi e si è fatto fare uno sfratto per morosità. Il comportamento della Giunta leghista è assolutamente inqualificabile e inac-cettabile. Viviamo in una società che vuole essere civile, non accettiamo la cancellazione dei diritti, le vendette sulla pelle dei più deboli, le discriminazio-ni nei confronti dei poveri. Chiediamo che le famiglie vengano rialloggiate utilizzando la normativa regio-nale e nazionale esistente: Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finan-ziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022 articolo 1, comma 234 Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione e DGR XI/2065 del 31/7/2019. La presenza al picchetto antisfratto è un atto dovuto, un dovere morale. Chi non vuole vedere, chi sottovaluta quanto sta accadendo, si assume la sua parte di responsabilità dentro una politica complessiva di guerra contro i più deboli in difesa dei presunti privilegi che secondo qualcuno dovrebbero spet-tare a chi è nato nell’agiatezza”. Ora la lotta continua per impedire il prossimo sgombero annunciato il 26 febbraio. http://ciptagarelli.jimdo.com/ http://www.comitatodifesasalutessg.com/ https://www.facebook.com/sindacatocasauisestosg/
30 marzo 2020 redazione
da nu. 2
DALLE DONNE SIRIANE In occasione della Giornata Internazionale della donna, l'Unione Generale delle Donne Siriane (GUSW), ha lanciato un appello ai popoli liberi del mondo e alla più alta istituzione mondiale, l’ONU, invitando a fare una risolu-ta pressione sugli Stati che sostengono con denaro e armi i gruppi terroristici armati in Siria e fermare questo sostegno. Parallelamente la Federazione Democratica Internazionale delle Donne (WIDF), della quale la GUSW fa parte, ha invitato le organizzazioni interna-zionali e delle donne a sostenere la resistenza all’aggressione delle donne si-riane e il diritto del popolo siriano a vivere con dignità e libertà. Da nove anni, ogni giorno, le donne siriane seppelliscono figli, fratelli e mariti, vittime di una cinica aggressione che ha avuto e a tutt’oggi negli USA, nella NATO e in Israele i burattinai, e nella Turchia, nell’Arabia Saudita i complici. Tutti celati dietro al terrorismo dell’ISIS e dei cosiddetti “ribelli moderati”, nel-la realtà la fanteria di terra per abbattere la Siria laica, multietnica e multi re-ligiosa. Penultimo tassello (l’altro è l’Iran) dell’Asse della Resistenza in Medio Oriente e storico alleato della lotta dei palestinesi. Nel paese la situazione alimentare, sanitaria e lavorativa è drammatica, nono-stante gli sforzi del governo di unità nazionale, e dei paesi alleati o solidali (… il 3/4 dell’umanità). Come in tutti i conflitti sono le donne a cercare con ogni mezzo di continuare a provvedere alle famiglie, a confortare bambini e so-pravvissuti, a credere e lottare comunque, ad alimentare la speranza nella vi-ta. Quanto succede in Siria, così come in ogni guerra, non è altro che la con-ferma di quanto siano incredibilmente forti e imprescindibili. In questo otto marzo, festeggiato in tutto il mondo come giornata internazio-nale della donna, ho voluto riservarlo a loro, senza dimenticare ogni donna in piedi o schiacciata nella lotta per la propria emancipazione, per la difesa della propria terra o per la liberazione del proprio paese. Dalle donne yemenite, a quelle libiche, afgane, del Donbass, alle donne venezuelane e così via. Tutte incluse in un grande abbraccio di solidarietà e in un impegno costante di so-stegno concreto. Forse per spiegare la valorosa resistenza e la forza delle donne siriane di og-gi, occorrerebbe ricordare agli aggressori e ai loro mercenari, che queste donne hanno radici millenari nella lotta contro lo straniero. In Siria, la lunga storia delle donne e del loro ruolo assolutamente paritario con l’uomo, risale alla guerriera Zenobia [240-274 d.C.], la regina ribelle del Regno di Palmira, la donna che fece tremare l’Impero romano, che guidò la mitica rivolta del suo popolo contro gli invasori romani. Sempre in continuità con le radici secolari cui la Siria fa appello per la sua re-sistenza, ne è esempio il Battaglione femminile costituito nell’area di Qami-shli, guidato da Jazya al-Taeemi, si è chiamato le "Khansawat della Siria", prendendo il nome di al-Khansaa, una famosa eroina araba, che storicamente è conosciuta per il suo coraggio e le sue battaglie. Nel corso dei millenni, la Siria ha sempre considerato e realizzato i diritti delle donne, come costituenti pieni e fecondi della sua civiltà e società. E oggi i di-strazionisti professionali vorrebbero riportare indietro la storia o addirittura trascinare la condizione delle donne siriane in quella, allucinante e medievale dell’Arabia saudita o dei paesi del Golfo. Cerchiamo di mettere alcuni elementi storici in chiaro e confrontiamoli con gli Stati Uniti, questi presunti “paladini, avanguardie di libertà e diritti umani nel mondo”. La Repubblica araba siriana concesse il suffragio femminile nel 1953, appena 7 anni dopo essersi liberata dall'occupazione colonialista francese. Gli USA si liberarono dalla tirannia inglese nel 1776, ma diedero alle donne il diritto di voto, 144 anni dopo, nel 1920. Gli Stati Uniti non hanno mai avuto una vicepresidente donna. In Siria il vice-presidente della Repubblica Araba Siriana dal 2006, è Najah al Attar. Suo pa-dre era un partigiano che ha combattuto contro gli occupanti francesi per la liberazione del paese. La vice presidenza siriana è nominata dal presidente e ha responsabilità simili a quelle degli Stati Uniti. Se il presidente siriano do-vesse diventare inabile, il suo vice presidente assume la presidenza. Confrontando le popolazioni degli Stati Uniti e la RAS (318,9 milioni gli USA; 23 milioni la RAS) e le donne in posizioni di comando, gli Stati Uniti sembra-no essere abitanti delle caverne tribali in confronto alla Siria. Impressionante e più ancora rovinante è il confronto con il più fedele alleato statunitense nell’area, quell’Arabia Saudita, che ha concesso alle donne di vo-tare (a una minima parte), nel dicembre 2015. Sono 130.000 le donne saudi-te che hanno potuto registrarsi al voto, rispetto a 1.350.000 uomini sauditi. Naturalmente, le donne che votano, devono chiedere il permesso ai loro ac-compagnatori maschi e devono essere accompagnate ai seggi elettorali. Que-sto vorrebbero trasferirlo in Siria. Prima dell’aggressione il cosiddetto femminicidio e altri crimini contro le don-ne, di fatto non esistevano nella Repubblica Araba Siriana. Lo stupro è un considerato un crimine capitale nella RAS. Da quando, Stati Uniti, NATO, Sauditi, Paesi del Golfo e i loro mercenari terroristi hanno lanciato questa banditesca congiura internazionale contro questo piccolo paese, i crimini con-tro le donne siriane hanno raggiunto proporzioni criminali di guerra. Basta notare quante donne siriane hanno importanti ruoli guida nel governo siriano di Unità nazionale. Nella magistratura, nelle scuole, nella sanità, nell’esercito, nella resistenza contro l’aggressione. Donne laiche, religiose del-le dodici fedi nel paese, tradizionaliste o modernizzate, socialiste, comuniste: tutte patriote. Dopo l’inizio dell’aggressione, migliaia di donne si sono arruolate nelle Forze di Difesa Nazionale formando unità militari e sono state dislocate in compiti di polizia e milizia territoriale. Il loro nome è "Leonesse per la difesa naziona-le". Sono impiegate ai posti di blocco e in controlli di sicurezza nelle aree cit-tadine o nei territori liberati. Nelle interviste hanno spiegato che, dopo che il loro paese fu sottoposto alla peggiore aggressione della sua storia, sostenuta e diretta da un insieme di paesi ciascuno dei quali ha una reputazione storica di brutalità, di crimini di guerra, di oppressione di popoli e paesi, e dopo l’arrivo di religiosi wahabiti fondamentalisti e fanatici, le donne siriane non avevano altra scelta che imparare l’uso delle armi e addestrarsi a difendere se stesse, le loro famiglie il loro paese e la propria patria. In occidente, quante giornaliste o attiviste per i diritti delle donne del famoso movimento femminista “#MeToo”, ha mai cercato di parlare o intervistare qualche familiare delle donne impegnate che sono la punta dell’iceberg delle decine di migliaia di donne assassinate o violate, da parte dei terroristi ISIS o dei cosiddetti “ribelli moderati”. Forse non sono, queste donne siriane, “politi-camente corrette” e quindi degne di testimoniare e denunciare la loro situa-zione. Combattono per la difesa della propria terra, della propria patria, del proprio popolo e non stanno dalla parte dell’invasore e dell’aggressore. E questo si sa, ai giorni nostri è una colpa grave per i popoli e paesi renitenti all’ordine mondiale imperialistico. Neanche le donne di Ghouta rapite e mes-se in gabbia, poi liberate dall’Esercito Arabo Siriano, sono state considerate degne di testimonianza neppure dal movimento #MeToo. Hayat, dopo la liberazione e la riunificazione di Aleppo, raccontò ai media si-riani, arabi, russi, della vita sotto i "ribelli moderati" . Comprendeva torture, omicidi, fame, prelievi d'organi, prigionia, mostrando le sue mani, martoriate e bruciate. Nessuna reporter occidentale l'ha mai cercata per intervistarla. Così come mai qualcuna ha contattato Souria Habib Ali, per sapere come rie-sce a sopravvivere al dolore di madre, dopo aver seppellito sei dei suoi figli, uccisi nella guerra. Nessuna delle anime candide dei media, così solerti e commossi dalle vicende occidentali, ha mai tentato di parlare con le donne siriane sopravvissute al massacro di Al Rashin il 15 aprile 2017. A molte di loro sono stati strappati e rapiti i loro bambini.
agosto 2019 redazione
Venezuela e diritti umani
Solidarietà contro un criminale blocco Intervista con Rafael Aguirre, segretario del COSI (Comité de Soli-daridad Internacional) del Venezuela L’11 luglio scorso abbiamo intervistato per "nuova unità" - nel corso di una riunione - il Segretario generale del COSI venezuelano. Il COSI è un’organizzazione venezuelana fondata nel 1971, e fa parte del Comitato E-secutivo del Consiglio Mondiale per la Pace. nu. Sei di ritorno dalla Svizzera e come mai sei qui in Italia? R. Abbiamo partecipato alla riunione del Consiglio per i Diritti Umani sul Ve-nezuela che si è svolta recentemente a Ginevra e abbiamo approfittato dell’occasione di visitare Milano grazie all’invito che ci hanno fatto alcune or-ganizzazioni politiche e sociali come il Comitato contro la Guerra di Milano con l’obiettivo, in primo luogo, di dare un riconoscimento all’immensa solidarietà che hanno manifestato le organizzazioni italiane, il popolo italiano, verso il nostro popolo. Sappiamo delle assemblee, delle manifestazioni e dei presidi nelle strade nelle quali avete espresso la vostra solidarietà e soprattutto che avete manifestato perché sapete che il nostro paese è coinvolto in una guerra imperialista che ha l’obiettivo di appropriarsi delle nostre risorse strategiche. Abbiamo anche colto l’opportunità per venire a denunciare ciò che oggi signi-ficano le misure coercitive unilaterali - le sanzioni economiche contro il nostro paese - per parlare della difficile situazione in cui si trova il nostro popolo co-me risultato della recrudescenza di queste sanzioni criminali da parte dell’imperialismo nordamericano e dei paesi dell’Unione Europea, che colpi-scono fondamentalmente il suo diritto all’alimentazione, alla salute, alla casa, all’insieme dei diritti sociali che, nel quadro del nostro processo, abbiamo po-tuto garantire al nostro popolo e che l’imperialismo non vuole permettere; per questo strangolano l’economia venezuelana, impongono un insieme di misure a livello internazionale per impedire le transazioni commerciali del Ve-nezuela, per impedire la vendita del suo petrolio a livello internazionale. Un insieme di azioni in campo economico, finanziario e commerciale che non ha altro risultato che la sofferenza del nostro popolo. nu. C’è un motivo particolare per stare proprio qui a Milano? Mi sembra che ci sia una connessione con alcuni pazienti venezuelani che avrebbero bisogno di cure particolari... R. Sì. Effettivamente in Italia abbiamo un esempio vivo delle conseguenze che il blocco contro il nostro paese produce. In Italia ci sono attualmente 27 pazienti che stanno aspettando il trapianto di midollo osseo, un trattamento immensamente costoso in qualsiasi luogo del mondo e che sola-mente un governo che metta al centro la giustizia sociale è capace di farsene carico. E, specificamente nel caso del Venezuela, il nostro governo lo sta fa-cendo da molti anni. Ma oggi gli è diventato impossibile perché non può ono-rare gli impegni di spesa a livello internazionale in conseguenza della crisi. In particolare, nel caso dell’Italia, il Venezuela si è visto cancellare il pa-gamento di 11 milioni di euro alle varie istituzioni sanitarie per poter seguire queste 27 famiglie che si trovano qui in attesa del trapianto, 11 mi-lioni che sono stati pagati dal Venezuela attraverso il Novo Banco del Portogallo e che sono stati trattenuti e bloccati da questa banca in conseguenza della crisi. nu. Chiariamo bene: il governo venezuelano ha già pagato? R. Sì, ma i fondi per il trattamento di questi pazienti sono bloccati. Durante questo processo di pagamento e successivo blocco dei fondi venezuelani sono già morti 3 pazienti. Così possiamo vedere, e toccare con mano, quelle che sono le criminali azioni degli Stati Uniti e le nefaste conseguenze che hanno per i venezuelani, compatrioti che stanno soffrendo e che hanno familiari ma-lati in Italia. In particolare nella zona di Milano c’è un gruppo di pazienti che si trovano qui da tempo e hanno una complessa situazione di gravi difficoltà, con pro-blemi per mangiare, con problemi per continuare le cure, con problemi di al-loggio. Noi, in primo luogo, chiediamo alle organizzazioni sociali che alzino la loro voce, che si facciano sentire per poter sensibilizzare e denunciare al po-polo italiano le conseguenze di queste azioni. Chiediamo anche a queste organizzazioni che si parli di quello che ha signifi-cato e di cosa è, concretamente, un blocco contro un popolo, contro il popolo venezuelano. Vogliamo anche ricordare, nel quadro della solidarietà – che è la tenerezza dei popoli – che, come diceva José Martì, la solidarietà non è da-re quello che ci avanza ma condividere quello che abbiamo. Noi sappiamo, e lo riconosciamo, che le organizzazioni in Italia faranno quanto riterranno giu-sto nel quadro della solidarietà internazionalista per poter appoggiare queste famiglie come potranno, con molto o con poco... Rispetto a queste richieste che abbiamo fatto alle varie organizzazioni che abbiamo incontrato, abbiamo avuto risposte positive. Ci siamo incontrati con diverse organizzazioni politiche e sociali, con partiti comunisti, con Italia-Cuba, con il Comitato contro la Guerra di Milano che è quello che ha promos-so gli incontri con maggiore entusiasmo, con il Centro di Iniziativa Proletaria che anch’esso ha messo a disposizione la sua forza e il suo gruppo politico per trattare questi temi, e speriamo di poter incontrare altre organizzazioni, di sommare volontà, di sommare un maggior numero di persone, di individuali-tà, di organizzazioni che si sentano coinvolte in una causa sociale, per la dife-sa reale dei diritti umani in Venezuela. Se vogliamo difendere i diritti umani in Venezuela è questo il modo di farlo: non lo si fa con il bloqueo, non lo si fa con il nefasto Rapporto (di Michelle Bachelet, n.d.t.) che è stato presentato al Consiglio per i Diritti Umani a Gine-vra. È solo con le azioni di cui abbiamo parlato prima che si difendono i diritti u-mani del popolo venezuelano. (Intervista e traduzione di Daniela Trollio)
maggio 2019 redazione
Intervista Aldo Milani
Presente e futuro Con Aldo Milani, a tutto tondo, dopo la sua assoluzione Michele Michelino nu. Nel 2017 sei stato arrestato con una accusa infame di estorsione, di aver incassato mazzette, e sbattuto in prima pagina su tutti i quotidiani nazionali e le televisioni per sputtanare te, il Sicobas e tutti e tutti quelli che creano con-flitto con il capitale lottando per i loro interessi. Il 13 maggio 2019 sei stato assolto (ricordiamo che il PM aveva chiesto 2anni e 4 mesi di reclusione), ma i mass-media hanno riportato la notizia in poche righe su quotidiani e tv locali dimostrando di essere un'informazione di regime al servizio dei padroni. Co-me hai vissuto questa vicenda tu e i compagni del sindacato? Milani. In realtà con patteggiamento era già stato condannato il Piccinini e contro di me non vi era nessuna prova in quasi cinquemila pagine di intercet-tazione solo in sette sono citato e la sola volta che si parla di soldi che i Le-voni dovevano dare lo si fa in riferimento alla nostra cassa di resistenza. In pratica Piccinini mi chiedeva quanti soldi il SI Cobas aveva sborsato per so-stenere i lavoratori in lotta ed avendo risposto che erano stati spesi 30 mila euro, Piccinini mi diceva che ne aveva chiesti 60 mila ai Levoni e tutto ciò era un acconto sulla parte economica che dovevano pagare per le mancate cor-responsioni in busta paga e che erano oggetto di trattativa tra gli avvocati di parte. Io rispondevo con un va bene (un niente per accusarmi di estorsione). Non c’entravo niente, ero estraneo alle mazzette del sig. Piccinini come si e-videnzia dalle immagini trasmesse anche se manipolate e quindi sono stato assolto dalle accuse. Il fatto grave è che continua l’attacco repressivo perché sembra che gli avvo-cati di parte vogliano fare appello. In ogni caso proprio oggi il mio sindacato ha presentato una denuncia tendente a dimostrare che l’azienda LEVONI con-tinua nella stessa politica non pagando il dovuto ai lavoratori, anche se loro (LA PROCURA, IL PADRONE) cercano di far diventare estorsione la semplice attività di contrattazione sindacale. A gennaio è stato dichiarato lo stato di agitazione per la GLS enreimpris di Piacenza, dove io non intervengo diret-tamente e solo per il fatto che ho firmato lo stato di agitazione, sono state depositate, da parte dell'azienda, 22 pagine di denuncia nelle quali si cerca di paragonare l'indizione dello sciopero - se non si ottiene l'incontro per una trattativa sulla applicazione contrattuale - come un ricatto e quindi una estor-sione. Minacciare lo sciopero se i padroni non si attengono al CCNL signifi-ca estorsione. In pratica i padroni tendono a mettere in discussione l’attività di sciopero. Formalmente lo sciopero lo riconoscono però vogliono svuotarlo della possibilità di usare certe forme di lotta per ottenere dei risultati; questo è il loro obiettivo e stanno spingendo affinché si approvi una legge per rego-lare lo sciopero. Esiste il precedente dell’accordo - già firmato dai Confederali e dalla stessa USB - che tende ad impedire i veri scioperi perché prevede che si possano fa-re solo se hai una sostanziale maggioranza nelle RSU. Noi ad oggi non ab-biamo all’interno delle aziende della logistica le RSU, ma le RSA e non fir-mando questo accordo tendono a non riconoscerci istituzionalmente. Noi non l'accettiamo e non abbiamo firmato accordi che tendono a regolare il conflit-to. nu. I lavoratori da subito ti hanno espresso solidarietà avendo capito che ti avevano teso una trappola per fare fuori te e il SICOBAS, però abbiamo visto che questo fatto ha creato disorientamento e divisioni anche in una parte del movimento sindacale. Alcuni sindacati confederali e anche sindacati di base in concorrenza con il Sicobas hanno preso per buone e a pretesto le accuse di estorsione del padrone avallate dalla Procura e dallo Stato contro di te pren-dendo subito le distanze e negando anche un minimo di solidarietà. Mol-te organizzazioni e compagni invece da subito ti hanno espresso solidarietà. Quali sono state le cause che hanno contribuito a far cadere l’accusa nei tuoi confronti. Milani. Le cause che hanno permesso la mia assoluzione sono dipese da di-verse cose. A parte la mobilitazione ci sono altri fattori del perché il giudice mi ha assolto dalle accuse. Il primo è stato senz’altro la mobilitazione dei la-voratori sin dal primo momento, già il giorno del mio arresto in tutti magazzi-ni i lavoratori hanno scioperato dando un chiaro segnale alla contropar-te. Anche nel giorno della sentenza nei magazzini spontaneamente si sono fermati per un'ora senza che ci fosse stata una chiara indicazio-ne dell’organizzazione sindacale per indire lo sciopero, io stesso ero all'oscuro di tale decisione. Inoltre una cinquantina di persone il giorno della sentenza autonomamen-te hanno deciso di fare un presidio fuori dal tribunale. Anche nel nostro sin-dacato c’è stata una discussione perché chi non ha esperienza sosteneva che era meglio non fare dimostrazioni a Modena, così pure aveva suggerito il mi-o avvocato il quale sosteneva: tanto abbiamo vinto sul piano giudiziario, at-tenzione perché se fate qualche iniziativa in città possono usare le mobilita-zioni per pronunciare una sentenza negativa. C’è stato un contrasto prima di tutto da parte mia nei confronti del mio avvo-cato perché con la sentenza poteva essere decisa da pregiudizio politico nei nostri confronti e quindi doveva essere il sindacato a decidere il che fare. An-che alcuni dei nostri quadri pensavano che era meglio non fare niente dal momento che l’accusa si era sgonfiata e il problema poteva essere risolto sul piano giudiziario. Invece abbiamo fatto una mobilitazione che ha permesso non solo di portare avanti la lotta su contenuti politici più avanzati, l’attacco contro di me che era stato portato avanti non era perché io non avevo fatto niente, anzi è proprio perché esercitiamo la lotta di classe contro i padroni, le istituzioni statali, per tali motivi che mi potevano condannare. I fatti dimo-strano che tutte le volte che si manifesta davanti ai tribunali con una certa forza è un motivo in più per far capire le nostre ragioni e questo può condi-zionare in parte anche le valutazioni dei giudici. Il secondo elemento è che la giudice Musti - capo dei giudici a Modena che in prima persona si era espo-sta la sera stessa del mio arresto invitando altri padroni a denunciarmi per lo stesso reato, e che a detta di molti ha sempre affrontato questi processi in maniera molto reazionaria - è stata sostituita una settimana prima di questa sentenza. Non è un caso che il nuovo giudice abbia aspettato il 13 maggio un mese dopo che era finito l'ultima udienza per dare la sentenza. Io ero convin-to che mi condannassero perché il PM, anche se ammetteva che avevo fatto l'estorsione a fine di bene per i lavoratori, aveva chiesto una condanna a due anni e 4 mesi di reclusione. Secondo me sono arrivati alla soluzione in senso positivo anche perché vi è stato questo cambiamento a livello di gestione della magistratura modene-se: problema risolto quando l’organo supremo della magistratura ha sostenuto che questa giudice Musti aveva vinto il concorso di giudice a Modena in maniera illegale, perché avevano "truccato" la graduatoria. A Mo-dena, a detta anche di fonti giornalistiche, c’è un gruppo di giudici apparte-nenti alla massoneria, legati al PD, che si sta disgregando nella misura in cui si stanno determinando altri equilibri politici del sistema di potere. La magistratura, la questura, gli organi di polizia di Modena nelle settimane precedenti alla sentenza avevano sempre avuto delle forme repressive di at-tacco alle lotte dei lavoratori e agli scioperi che facevamo. Anche i mezzi uti-lizzati dal punto di vista militare, da polizia e carabinieri, sono sempre più improntati alla violenza, non sparano più lacrimogeni in aria, ma quando sei seduto per terra: questo atteggiamento è un anticipo di quello che sarà il decreto sicurezza bis. Non potrai più neanche avere in mano un fumogeno per essere condannato. Modena fa scuola, è un apripista all'accentuarsi delle azioni repressive contro gli scioperi e alle nostre forme di lotta che portiamo avanti nella logistica e questo modello si estenderà a tutti. Il terzo elemento sono le contraddizioni in campo nemico, nelle forze bor-ghesi, nell’ultimo periodo relativo allo sciopero dell’Italpizza, la CGIL ha co-minciato a prendere pozione contro una aperta repressione delle lotte. In questa azienda la maggioranza dei lavoratori è iscritta, su indicazione delle cooperative alla UIL, e per concorrenzialità, in questo caso, la CGIL si è schie-rata perché sia applicato il contratto in relazione alle professionalità esercita-te. In più c’è stato un incontro al MISE dove l’inserimento dei 5stelle nella ge-stione di quel ministero ha favorito noi perché questo partito cerca di mettere in discussione la forza del PD nell'area modenese. Infatti, nell'incontro con l’azienda Italpizza al Ministero, quando la UIL ha posto il veto sulla nostra presenza perché non firmatari di contratti nazionali, il funzionario gli ha rispo-sto negativamente sostenendo che anche il SI Cobas aveva tutto il diritto di stare al tavolo di trattativa. Questi fatti, insieme all’allargamento della lotta e del conflitto, secondo me hanno influito in parte sulla decisione del giudice di assolvermi. nu. Alla fine ti hanno assolto ma per un anno e mezzo sei stato messo alla gogna mediatica, ti hanno applicato delle restrizioni e impedito di muoverti li-beramente, cosa ha comportato per te questo domicilio coatto? Milani. Il fatto di dover stare in casa senza possibilità di muovermi è stato un grosso problema, ma tutti noi che ci muoviamo sul terreno della lotta con una visone di classe dobbiamo metter in campo che andranno avanti contro le lotte operaie e la repressione sarà un dato oggettivo che aumenterà. Però, stare ai domiciliari è stato pesante non potendomi muovere sul territorio. Es-sendo, in questa fase, ancora il compagno che si muove di più sul piano na-zionale per il sindacato, stare chiuso in casa e segnalare quando uscivo dove andavo è stato molto pesante. Un altro aspetto a proposito di repressione: Venerdì dell'altra settimana siamo stati a Napoli per un’assemblea operaia e mentre eravamo in albergo di notte del (18), si sono i presentati i carabinieri notificando una denuncia per uno sciopero fatto qualche mese prima al coordinatore del sindacato di Bologna, Simone Carpegiani, il qua-le aveva prenotato le camere dell'hotel. Il sistema intimidatorio, come si ve-de, è continuo e riguarda tutti. Anche gli altri sindacati, se si muovono su un terreno meno movimentato del nostro, se pensano di non essere toccati da questa svolta repressiva si sbagliano. Avranno anch'essi problemi di agibilità sindacale. Le scelte repressive che si acuiscono non attaccano solo il Sicobas ma tutti coloro che eserciteranno il conflitto di classe. nu.Tu pensi che oggi ci sia una fascistizzazione del sistema capitalista? Milani. Oggi non esiste un sistema fascista, c’è una tendenza alla fascistizza-zione dello Stato attuata attraverso un utilizzo più accentuato della repressio-ne. I capitalisti, nella crisi, avendo sempre minori margini di soprapprofitto per corrompere strati di lavoratori e aggregare intorno a sé il consenso della piccola e media borghesia hanno bisogno di dotarsi di strumenti di controllo e di repressione più accentuati. Lo Stato oggi, nella crisi, ha meno briciole e spazi economici per coinvolgere questi strati, quindi debbono ricorrere al-la repressione dei movimenti a cominciare da quelli dei lavoratori. Davanti a questo scenario che ci vedrà più colpiti dalla repressione, diventa impellente allargare il fronte di lotta. La risposta non può più essere solo la denuncia di questo aumento della repressione, ma quella di organizzarsi di più, generaliz-zare la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici, fare fronte unico! nu. La vostra esperienza molto radicale anche nelle forme di lotta sindacale, nonostante le conquiste ottenute dimostrano anche i limiti dell’azione sinda-cale basata sui rapporti di forza. Sappiamo entrambi che la lotta sindacale è necessaria per porre un argine allo sfruttamento, al peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato, ma i licenziamenti, i morti sul la-voro e tutti i mali che deve subire la classe operaia contro cui lotta ogni gior-no sono solo gli effetti del sistema; la causa risiede nel capitali-smo/l’imperialismo. Nel Sicobas come intendete muovervi nelle contraddizioni tra lotta sindacale e organizzazione politica, vi ponete il problema dell’organizzazione politica di classe e del potere? Milani. Posso rispondere per me non per tutti i compagni del sindaca-to. Anche nelle nostre tesi abbiamo cominciato ad abbozzare una prospettiva politica. A differenza del passato, faccio un esempio, negli anni '20 mentre si lottava per la difesa del salario, delle condizioni dei lavoratori, contro i licen-ziamenti ecc, i riformisti e i comunisti avevano prospettive diverse. I riformisti nello sviluppo della lotta trovavano un accordo con i padroni e il più delle vol-te tradivano gli interessi specifici di quelle stesse lotte, i rivoluzionari erano più conseguenti nella difesa economica e dei diritti dei lavoratori e si adope-ravano per l'allargamento della lotta. Oggi invece, soprattutto negli ultimi 70 anni, dopo che c’è stata una maggiore integrazione dei sindacati nello Stato e questo è avvenuto in tutto il mondo, non solo in Italia, le piattaforme dei sindacati confederali sono dall'inizio improntate alla difesa del sistema ca-pitalistico. Se l'economia è in crisi si debbono accettare i sacrifici ed i lavora-tori devono aumentare gli indici di produttività. Questo criterio di fondo av-viene per le piattaforme di tutti i settori, nei metalmeccanici, chimici e al-tre categorie. Era così come allora, all'inizio del '900 ma oggi è ancora più evidente, sosten-gono e rivendicano questi sindacati apertamente le esigenze dell'economia capitalista, gli interessi borghesi. Al primo posto si mette la produttività, la salute del sistema, per cui bisogna accettare sacrifici, licenziamenti e via di seguito. Essendo poi venuta a man-care, almeno negli ultimi cent’anni, un’organizzazione di classe nella forma partitica (una volta erano i partiti che erano il punto di riferimento dei sinda-cati) i lavoratori si presentano di fronte all’avversario senza avere una politica prospettica e spontaneamente arrivano a sviluppare una politica tradunioni-stica tuttalpiù cercano di supplire alla mancanza del partito compiti che hanno una valenza non puramente di contrattazione della forza lavoro. Non è un ca-so che noi sosteniamo che il compito del sindacato e quello di rivendicare al meglio le condizioni dei lavoratori, ma per poterlo fare bisogna definire gli obiettivi e le forme di lotta all'interno di una prospettiva anti capitalistica. Il sindacato finisce per supplire la mancanza del partito e avere un ruolo che "non è il suo". Le nostre lotte sul piano delle rivendicazioni sono coerente-mente anticapitalistiche: abbiamo ottenuto la riduzione di due giornate di la-voro all'anno, molto poco ma è in controtendenza con quello che sta succedendo in Europa. Questo però dimostra che la battaglia per la ridu-zione dell’orario di lavoro si può fare concretamente se si costruiscono delle lotte ed un fronte unitario dei lavoratori, forti aumenti salariali, passaggi di li-vello non in base alla professionalità, ma agli anni di presenza nei magazzini. Tutta la lotta classe contro classe non può essere fatta solo per avere un co-sto più favorevole della forza lavoro e anche su questo terreno il capitalismo se le condizioni del mercato lo impongono chiude le fabbriche, la lotta deve spostarsi e allargarsi contro tutte le manifestazioni del dominio borghese. Ec-co perché dei compagni si pongono non solo di portare avanti delle lotte radi-cali ed in senso anticapitalista, ma diventa essenziale favorire la formazione di un'organizzazione politica e non solo sindacale della classe. Tuttavia la crisi evidenzia che questo sistema ormai non può più concede-re neanche queste briciole e le briciole le ottieni solo se si in grado di fare la lotta in un quadro anticapitalista. La caratteristica del Sicobas, a differenza degli altri sindacati è questa. Il sindacalismo di base sta entrando in cri-si, perché nel '92/93 quando è nato, era una forma di critica alla democrazia all’interno delle fabbriche, ai burocrati sindacali che decidevano e i lavoratori non avevano nessun spazio, allora questo è stato un momento dirompen-te però oggi restando sul terreno del tradeunionismo di spartirsi un po’ le quote: meno al profitto più al salario, si resta ancorati ad una visione oppor-tunista che non paga nemmeno più. È necessario legare la battaglia dal pun-to di vista economico alla necessità di sviluppare una propria organizzazione politica. Questo è e sarà un dato imprescindibile per quei lavoratori che si vorranno porre come classe nei confronti della classe borghese: dovranno porsi il problema di un attacco più complessivo al sistema capitalista. I due termini, sindacato e partito non si debbono intendere separati e non si può dire questa è solo una lotta limitata all'ambito sindacale, oppure questa è re-lativa all'ambito politico e riguarda quindi il partito. I due elementi non sono distinti sono strettamente collegati nella lotta operaia. L’avanguardia dei lavoratori non si conquista attraverso la propaganda delle idee. L’organizzazione politica se nascerà e, noi cerchiamo di favorirla, sarà data se saprà coniugarsi alle lotte dei lavoratori d'avanguardia. Alcuni di noi stanno lavorando per far evidenziare ed emergere la necessità di una orga-nizzazione politica perché ci sono tanti problemi che riguardano i rapporti fra le classi e solo una organizzazione politica può sviluppare un'azione per ren-dere coscienti i lavoratori. Bisogna essere dialettici, noi abbiamo un vantaggio e un handicap. Il vantaggio è che il sistema capitalistico della logistica dove operiamo maggiormente noi la composizione organica del capitale e più bas-sa rispetto ai diretti concorrenti, quindi più utilizzo degli uomini che dei mezzi, inoltre in Italia - a differenza degli altri paesi imperialisti nostri concorrenti che hanno avuto una maggiore forza e dominio nei paesi arretrati e una im-migrazione di terza generazione - l'immigrazione è avvenuta negli ultimi ven-t'anni. Oggi in Italia l'immigrazione conta numeri consistenti. Abbiamo una classe operaia meno ideologizzata, meno legata ai partiti, meno sindacalizzata, diventa più protagonista delle lotte, anche se non ha u-na visione politica di prospettiva. Molti di loro pensano che attraverso le lotte sindacali si possano ottenere risultati duraturi, definitivi. Ma anche nella logi-stica nell’ultimo anno e proprio nelle aziende in cui si sono ottenute più con-quiste sindacali, aumenti di salario, riduzioni dell’orario di lavoro, e migliori condizioni di lavoro è in atto una riorganizzazione del sistema padronale che sta portando alla chiusura delle aziende, questo è il capitalismo bellezza. Il risultato di questo processo è che gli stessi operai come i nostri che hanno ottenuto con le lotte da 700 a 2200/2400 euro in certi magazzini importanti non possono pensare che le cose vadano sempre bene, devono porsi il pro-blema che sempre nel processo capitalistico la concorrenza e il processo di ri-strutturazione ha conseguenze sul loro livello di vita. nu. La concorrenza divide i lavoratori e la lotta contro lo sfruttamento li uni-sce, tuttavia le contraddizioni nel proletariato rimangono, come convivono nel Sicobas le varie nazionalità, e con diverse religioni? Milani. L’unità nella lotta ha dimostrato la forza dei lavoratori e li ha uniti sul piano sindacale, ma il fatto che questi operai provengono da varie parti del mondo fa sì che si portino dietro anche l’ideologia delle regioni di provenien-za. Certo che oggi costruire un partito marxista all’interno dei lavoratori diventa un problema in un settore di classe in cui il 95% appartengono a religioni di-verse. L’averli organizzati, uniti, perché c’era un razzismo anche fra loro, di-scutendo insieme anche delle questioni religiose, non in maniera ideologica ma rendendo evidente come gli antagonismi di classe sono inconciliabili, per noi è una battaglia politica e questo è utile anche dal punto di vista politico internazionalista. Noi oggi abbiamo 32 nazionalità all’interno del sindacato per cui il nazionalismo è un problema presente. Per esempio, molti pensano che Erdogan sia per loro un punto di riferimento, in particolare nelle aree ara-be. Noi quindi c’e anche una battaglia contro questi aspetti che sono culturali, religiosi e politici che dobbiamo fare, che non è solo sindacale, ma anche poli-tica. Noi non ci poniamo solo il problema di migliorare le condizioni sul posto di lavoro, ma il problema nostro come marxisti è quello di porre il problema dal punto di vista politico. Su questo, a livello di slogan, di concezione, di battaglie i nostri quadri co-minciano e sentire questa influenza. Per molti dirsi comunisti diventa un pro-blema. Per esempio ieri discutevamo con i compagni tedeschi del Parti-to Comunista m-l e loro ci dicevano che in Germania se dici che sei comuni-sta, marxista non puoi neanche partecipare ai sindacati ma vieni espulso. Oggi per noi non è cosi, anche se diciamo che siamo comunisti, ponendoci dal punto di vista marxista per i nostri lavoratori non c’è questo problema an-che negli slogan, negli interventi che fanno si stanno muovendo su quel ter-reno. È la materialità che li spinge a risolvere la contraddizione e quindi an-che l’elemento soggettivo, l‘organizzazione politica diventa sempre più impor-tante proprio per la direzione di questo processo. Gli stessi lavoratori comin-ciano a prendere coscienza della limitatezza della lotta sindacale, sia azienda-le sia di settore. Noi siamo nati come sindacato fondamentalmente della logi-stica, andare oltre come a Modena, Napoli o altre parti è importante. Modena più di Bologna ha la ceramica, la Maserati, la Ducati, metalmeccanica, alimen-tare con l’Italpizza è la prima in Europa, tutta una serie di altri settori. Il 30% dei lavoratori di queste fabbriche sono immigrati, ma anche italiani e questo significa che cominciamo a incidere perché anche questi cominciano ad aderire al sindacato. Non pensiamo di allargarci e diventare da soli il sin-dacato di classe, ma lavoriamo in una prospettiva di fronte unico con tutti i lavoratori per fare una battaglia sul terreno complessivo che per noi diventa fondamentale. Il nostro definirci sindacato intercategoriale ha un valore in prospettiva, non è il sindacato di più federazioni, una confederazione, con il segretario dall’alto che gestisce. Noi vogliamo essere dei coordinatori di un’attività contro la de-lega che oggi è ancora molto forte anche nel Sicobas e mettere al centro i Cobas, deve essere il delegato che si fa attivo dal punto di vista sindacale e politico di questo processo o confronto. Anche adesso nel sindacato si tende a dare più peso ai coordinatori invece che al Cobas. nu. Il vostro slogan “se toccano uno toccano tutti” è diventata la parola d’ordine generale del movimento operaio e di lotta e questo è un grande ri-sultato. È uno slogan che si basa sulla solidarietà di classe che gli operai co-scienti hanno sempre praticato e che oggi con l’acuirsi della concorrenza e la guerra fra poveri diventa ancora più importante. Tu hai detto che riconosci i limiti della lotta economica-sindacale e, quindi l’importanza di una organizza-zione politica, ma i lavoratori più coscienti di cui parlavi prima cominciano a porsi il problema del Potere operaio? Del socialismo? Milani. Sì, anche se in maniera empirica. Oggi succede che con l’allargamento e la radicalizzazione della lotta alcuni pensano che questo sia possibile attraverso il sindacato. Noi stiamo lavorando per favorire il confron-to sul terreno politico. Sta poi alle avanguardie dimostrare che questa è una limitatezza. Basta seguire le nostre manifestazioni anche esterne dove si vede come questo avviene. Oltre agli obiettivi della lotta economica si pongono i problemi dell’imperialismo, la presenza imperialista nelle varie aeree nei loro paesi e tutta una serie di temi, ma non si tratta solo di propagandare come è giusto che i marxisti facciano sempre. Ci vuole la capacità di far comprendere che questa lotta è all’interno delle cause che producano queste contraddizio-ni. Sta a noi far comprendere, e lo stiamo facendo, che dentro questa pro-spettiva puoi anche avere dei vantaggi sul piano economico. Ora molti lavora-tori s’iscrivono al sindacato, abbiamo cinque avvocati per i servizi, come in al-tri sindacati, ma il nostro è un sindacato di militanti. nu. Nel mese di maggio prima in Francia e poi in Italia ci sono stati manife-stazioni e picchetti dei lavoratori portuali e di comitati contro la guerra per impedire l’attracco nei porti di una nave che portava armi saudite da utilizzare nella guerra civile in Yemen, cosa pensi di questo fatto? Milani. Noi siamo solidali, a livello di denuncia anche noi lo stiamo facendo. Io pongo però l’accento sulla materialità. Anche la questione delle donne pro-letarie all’interno dei posti di lavoro è un problema che ci poniamo anche pra-ticamente avendo ormai un buon numero di lavoratrici all’interno del sindaca-to e abbiamo fratto uno sciopero di tutti i settori questo problema. Anche su temi come quello della guerra ricordo che è la DHL quella che porta le armi per gli americani in Medio oriente e nei vari fronti di lotta, quindi la logistica è un settore fondamentale. Riuscire a fare degli scioperi internazionali significa ostacolare, agi-re concretamente contro la guerra non limitandosi solo alla propaganda sep-pur necessaria contro l’imperialismo e oggi purtroppo su questo problema siamo ancora indietro, ma ci stiamo lavorando. Infatti, nei nostri incontri na-zionali poniamo sempre il problema di un collegamento anche materiale, non solo volantini e prese di posizione di denuncia. Siamo stati recentemente in Asia, in India abbiamo preso contatti come sindacato con sindacati di quei paesi perché crediamo che l’unità internazionale ci rafforzi, ad esempio il gruppo Zara produce i propri abiti in Bangladesh e in quelle’aree, lo stes-so vale anche per Benetton e tutti i gruppi multinazionali. Recentemente in quell’area hanno licenziato migliaia di lavoratori perché ave-vano fatto uno sciopero, ecco davanti a questi avvenimenti essere in grado di far scioperare e mobilitare tutti i lavoratori del gruppo anche in Italia è fon-damentale. Non è che noi ci poniamo il problema dell’internazionale per il fu-turo, noi cerchiamo di praticarlo già adesso, come importante è confrontarsi e discutere di questa crisi e delle lotte che si stanno sviluppando a carattere in-ternazionale per noi è fondamentale. Intervista raccolta il 20 maggio 2019
maggio 2019 redazione
Intervista con Raùl Capote Fernàndez
Intervista con Raùl Capote Fernàndez Sabato 18 maggio si è tenuto un incontro organizzato dal Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” di Sesto San Giovanni (MI) e dal Circolo di Sesto S.G.-Cinisello B.mo dell’Associazione di Amicizia Italia Cuba. Invitato di eccezione lo scrittore cubano, giornalista del Granma Internacio-nal, professore di storia, Raùl Capote Fernandèz, noto anche per essere stato l’agente “Daniel” della Sicurezza cubana che smascherò pubblicamente, dopo essersi infiltrato nella CIA, i metodi dell'Agenzia stessa per creare la dissiden-za negli ambienti universitari e intellettuali a Cuba, descritti nel suo libro “Un altro agente all’Avana”. Nel corso della serata – cui hanno partecipato più di 80 persone - Raùl Capo-te ha anche presentato il suo ultimo libro in italiano: “La guerra che ci fanno”, della Red Star Press di Roma. L’abbiamo intervistato per i lettori di "nuova unità" Potresti parlarci del ruolo della CIA, ora, in Venezuela? La CIA ha un ruolo nella posizione degli studenti e di strati della piccola borghe-sia? Sì: sia a Cuba che in Venezuela la CIA preparò dei piani, dopo i processi che misero fine alle dittature militari, piani che riguardavano le università perché, tradizionalmente, le università latinoamericane sono sempre state la culla del-la sinistra e della rivoluzione e loro hanno creato un progetto per formare “le-aders” in tutta l’America Latina. Da lì escono i principali leader della destra la-tino americana: quasi tutti sono stati formati nei programmi di interscambio accademico. Il Venezuela non è un’eccezione, lì avevano cominciato a orga-nizzarli prima ancora che Chàvez assumesse la presidenza. Naturalmente quando Chàvez assume la presidenza il progetto si intensifica. E dagli anni 2002/2003 cominciano anche a inviare questi ‘leaders’ a prepararsi a studia-re con i loro professori le tecniche del ‘golpe morbido’. Il lavoro della CIA è stato quindi intenso, allo scopo di creare una quinta colonna contro il governo di Chàvez, e di Maduro poi. Il Venezuela è, da poco, sotto il fuoco diretto dell’imperialismo, con manovre militari e soprattutto l’embargo. Cuba soffre 70 anni di embargo e continua a resistere. Come mai la gente resiste a tutte le mancanze di cose essenziali, cosa c’è dietro? La coscienza? La formazione della coscienza. Credo che possiamo parlare di similitudine. Sia la rivoluzione bolivariana che quella di Cuba sono rivoluzioni autentiche. Ciò che dà una grandissima forza a questi processi è l’autenticità. Sono processi che nascono dalla base, che nascono dalla cultura e dalla storia stessa di questi paesi e questo conferisce loro molta forza. È stato dimostrato che tutti questi progetti della CIA e del governo nordamericano che hanno avuto suc-cesso in altre parti del mondo non possono dare risultati in paesi come Cuba e Venezuela perché qui si tratta di rivoluzioni autentiche, perché tu puoi vin-cere contro un governo ma non puoi mai vincere contro un popolo. Quando un governo ha l’appoggio della maggioranza del popolo nessuna di queste manovre ha successo; io direi che ottengono l’effetto contrario, com'è successo in Venezuela con l’attacco al sistema elettrico, che ha lasciato il pa-ese senza corrente, senza acqua, con l’intenzione di paralizzarlo e mettere in difficoltà il governo rivoluzionario: l’attacco ha avuto l’effetto che molte delle persone che erano confuse hanno capito chi era il vero nemico del loro pae-se. E dato che sono rivoluzioni autentiche, che nascono dalla cultura e dalla sto-ria di un paese, questo nazionalismo, questo senso della sovranità e dell’indipendenza legittima il processo rivoluzionario, fa sì che il processo rivo-luzionario cresca, aumenti, che abbia sempre maggiore appoggio e questo succede in molti luoghi del mondo, non solo in Venezuela ma quasi sempre in tutta l’America Latina. E Cuba come affronterà le nuove sanzioni, il Titolo III della legge Helms-Burton, tenendo conto che ora il Venezuela ha problemi nell’aiutare Cuba? Cuba ha molta esperienza in questo campo. Tutti dicevano che Cuba sarebbe caduta quando cadde l’Unione Sovietica e le relazioni con i sovietici erano molto più intense, più profonde, di quelle che abbiamo con il Venezuela. Quando ci fu la caduta del socialismo in Europa dell’est, la sparizione del campo socialista e dell’Unione Sovietica, il colpo fu fenomenale. Ora non è la stessa cosa, Cuba ha adesso una diversificazione economica molto grande, non dipende dal Venezuela, contrariamente a quello che dice la propaganda. Con il Venezuela abbiamo una relazione profondamente umana, compreso un nuovo modo di pensare alle relazioni tra paesi, siamo paesi fratelli, che si aiu-tano uno con l’altro anche nel commercio, ma Cuba ha legami con molti altri paesi e questo Titolo III, che fa parte di una legge terribile - perché io non separo mai il Titolo III dall’intera legge Helms-Burton; la legge Helm-Burton è una barbarie perché un governo straniero legifera su un altro paese, ma non solo su un altro paese ma sul mondo, è un governo straniero che sta dicendo con una legge come deve cambiare il sistema politico di un paese e che sta dicendo, passo per passo, come lo farà e noi cubani naturalmente non lo possiamo accettare perché danneggia il progetto socialista, la nazione e an-che il paese stesso in quanto tale. E noi abbiamo affrontato in più di 60 anni questo tipo di problema che ci crea difficoltà, sì, ci crea difficoltà serie perché mette in pericolo gli investimenti a Cuba, ma io credo anche che ci sia un doppio aspetto in questo processo perché esso sta danneggiando molto an-che gli Stati Uniti perché molti dei loro alleati fedeli sono anch’essi colpiti da questa legge. Cuba ha buonissime relazioni con il Canada, con l’Inghilterra e con l’Unione Europea ed io non credo che l’Unione Europea accetterà che gli Stati Uniti facciano fallire i suoi affari. Per i capitalisti la cosa importante è il mondo del denaro, degli affari, e c’è una risposta forte da parte degli alleati degli Stati Uniti contro questa legge, che è davvero inapplicabile. L’effetto re-ale di questo Titolo III è diretto a impedire che si realizzino nuovi investimenti a Cuba. Vediamo ad esempio il problema delle navi che attraccano a Cuba. Negli Stati Uniti stessi, nessuna società nordamericana che ha affari a Cuba ha smesso di utilizzarle, perché gli agricoltori dell’est, dell’ovest e del sud degli Stati Uniti oggi dipendono molto dal commercio con Cuba, Cuba è il forse paese che compra più prodotti agricoli da questi produttori e i politici di quelle zone de-vono necessariamente rispondere ai loro elettori e i loro elettori stanno chie-dendo loro con forza di non interrompere le relazioni con Cuba perché altri-menti ci sarebbe una grave crisi in questo settore importante dell’economia nordamericana. Ci sono società legate al turismo, società di navigazione che guadagnano molto a Cuba da anni, che dicono che si tratta di misure assolutamente folli ed io credo che ci siano cose che sono persino illogiche perché ora come fare con persone, padroni di proprietà che sono state nazionalizzate da Cuba, che effetto reale gli si può riconoscere se durante le nazionalizzazioni Cuba pagò tutti i proprietari del mondo intero, perché non c’erano solo nordamericani ma inglesi, italiani, francesi, e Cuba pagò un indennizzo per le loro imprese. I nordamericani non ebbero gli indennizzi perché il loro governo proibì loro di riceverli. Quindi, ora, che cosa pretendono? Cosa vogliono i cubani che se ne sono andati in seguito, che ora sono cittadini nordamericani, di recuperare una società, un terreno che gli è stato nazionalizzato in un determinato mo-mento in base alla legge cubana e non di altri paesi, e anche in base a leggi internazionali che regolano queste cose, se Cuba ha agito anche in base alle leggi internazionali e ha agito in modo perfettamente legale… cosa reclamano adesso? Sulla base poi di processi che sono palesemente viziati contro Cuba! Nessuna società americana ha accettato questi processi, e neppure gli agri-coltori che ci vendono i loro prodotti. Una cosa come questa non si può fer-mare, non conviene ad alcun porto degli Stati Uniti non avere uno scalo nel porto di Mariel, perché Mariel è un nodo straordinario per le rotte verso tutto il mondo: è una follia per un impresario americano non poter farne uso. È davvero suicida e inapplicabile. In questi giorni ci sono i portuali, a Genova, che rifiutano di scarica-re una nave che porta armi per l’Arabia Saudita. In Italia questo è già successo anni fa: per il Vietnam e durante la 1° Guerra del Golfo. Per voi è importante la solidarietà internazionale? È vitale. Io credo che quello che può fermare questo capitalismo che si vuole imporre, con nomi differenti, chiamatelo come volete, questo capitalismo sel-vaggio che agisce nel mondo intero, quello che può impedire che esso trionfi è la solidarietà. Alla fine, anche se noi difendiamo i nostri paesi e lottiamo, i lavoratori del mondo intero sono una sola classe. Ci deve essere una solida-rietà di classe, perché questa è la chiave della vittoria. Il capitalismo ha terro-re di questo processo di solidarietà. Quello che sta succedendo in Grecia, alla Grecia e nel mondo con questo ri-sorgere della destra… parliamo di fascismo e la gente dice “no, no è fasci-smo” e lo vedono come un processo ideologico indipendente dal capitalismo, e noi invece dobbiamo dire, e non sono certo io il primo a farlo, che il fasci-smo è una fase del capitalismo, il fascismo è lo strumento cui ricorre il capita-lismo quando non ha più modo di dare soluzioni e di controllare la realtà. Ed è stato dimostrato che l’unico modo per batterlo è la solidarietà. E mai come oggi vale la famosa frase “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Così l’unità è vi-tale per fermare la controffensiva della destra. Secondo te, e solo secondo te, come si evolverà la situazione in Ve-nezuela? Cercheranno una soluzione militare o continueranno a fare danni su danni e a cercare di strangolare lentamente il paese? Cercheranno di strangolare lentamente il paese. Anche se questo governo nordamericano si caratterizza per il livello di caos, intenzionale, perchè un paese che ha un alto livello di ordine e controllo non può avere un tale livello di caos. È in caos intenzionale. In questo momento il caos nel governo è in-credibile, con un gruppo di consiglieri che sono i peggiori. Donald Trump è consigliato dal peggio della destra nordamericana. Non solo i peggiori in quanto reazionari ma in quanto sono inefficaci e sono molto pericolosi. Ma un’azione militare in Venezuela sarebbe terribile per gli Stati Uniti. Primo, per la vicinanza geografica e, secondo, perché incendierebbe il continente. L’America Latina non è più quella degli anni ’60, l’America Latina di oggi è un’America Latina che è passata attraverso processi progressisti, c’è un’organizzazione e un livello di coscienza molto più alto di allora. Neppure alla destra piacerebbe. Oggi essa osa persino sfidare gli ordini di Washington, e si tratta delle posizioni e delle persone più vicine di Washington. E di questo devono tenere conto e cercheranno di far girare all’indietro l’orologio. Gli Stati Uniti oggi hanno un grave problema con il tempo e questi reazionari hanno bisogno di una vittoria in politica estera. Gli va tutto male: in Corea, in Siria, e le cose gli si complicano. È tutto fuori controllo: tutti i fenomeni, tutto il caos che hanno creato sfuggono al controllo. E non sanno come trovare una soluzione prima delle elezioni. Lo scenario è quindi completamente diver-so da altre volte perché negli Stati Uniti si sta formando, adesso, un movi-mento di giovani che stanno cercando risposte. E ci sono giovani negli Stati Uniti che si stanno chiedendo qual è la risposta al sistema e il socialismo sta prendendo nuovamente forza, causando grandi preoccupazioni. Gli Stati Uniti hanno un problema economico molto grave, il debito estero de-gli USA è sempre più grande, la bolla finanziaria speculativa continua a cre-scere, molto più grande del 2008 e loro sanno cosa sta succedendo, stanno perdendo i mercati a favore di Cina e Russia, è una situazione molto grave e li rende più pericolosi e sono più pericolosi che mai, possono comportarsi contro ogni logica, anche se umanamente crediamo che sia impossibile, ma non credo che osino organizzare un’azione militare in America Latina. Ultima domanda: chi frequenta il nostro Centro, in maggioranza, sono operai che hanno vissuto sulla propria pelle la brutalità del ca-pitalismo anche quando non era “selvaggio” e siamo comunque qui, lottando e cercando di fare solidarietà e di far capire alla gente che la battaglia di uno è la battaglia di tutti, che il nostro nemico è an-che il loro. Cosa pensi della solidarietà degli operai italiani? Che si è perso moltissimo. L’Italia è stata vittima della guerra culturale più in-tensa fatta in Europa. In altri tempi l’Italia fu considerata il prossimo paese che avrebbe fatto una rivoluzione socialista e questo avrebbe cambiato la si-tuazione del mondo. Questo il nemico lo sapeva benissimo e mise in atto tut-to il possibile per fermare la classe operaia. Ora la classe operaia italiana è divisa, è divisa perché c’è un interesse perché sia divisa. Ma quest’ombra, la ragione per cui è divisa, non è una questione di principi ma di forma. E io credo che sia un fatto momentaneo. E dato che siamo comunisti, crediamo che sia un fatto momentaneo, un processo che si è sviluppato ed è importante anche che sia successo, perché così impariamo. Abbiamo tutti imparato molte cose dal passato e arriverà il momento in cui la gente cercherà l’unità. Lo pensano in molti luoghi. Io ho la possibilità di parla-re, venendo dall’estero, con molti gruppi di comunisti di una tendenza, di so-cialisti di un’altra, e mi accorgo come tutti facciano la stessa domanda: “la classe è una e i comunisti sono tanti”. Quindi succederà. Ma se la gente non lo crede non succederà. La preoccupazione di tutta la sinistra italiana è l’unità. Se non fosse così, ci sarebbe da preoccuparsi. (intervista e traduzione di Daniela Trollio)
marzo 2019 redazione
intervista gilet gialli
Gilet gialli per far cadere Macron e la sua grandeur Samuel è l'operaio che il 7 novembre 2018 ha contestato pubblicamente il Presidente francese Macron in visita alla fabbrica dove lavora Michele Michelino In occasione dell'iniziativa del 16 marzo a Milano, abbiamo intervistato il "gilet giallo" presente, attivo nella lotta fin dall’inizio: Samuel Beauvois, operaio MCA RENAULT MAUBERGE, delegato di fabbrica per il sindacato SUD Indu-strie/Solidaires. D. Il movimento dei gilet gialli è composto da frazioni di varie classi sociali; qual è il punto di vista di un operaio, di quel settore della classe operaia indu-striale che partecipa a questo movimento? R. È una buona cosa che strati sociali diversi si trovino a lottare insieme, da-gli operai ai professionisti, ai padroncini, ai dirigenti, perché questo significa che il popolo francese dice basta a un governo repressivo che in pratica re-prime i francesi. È un governo che fa parte di una élite ben precisa. Macron sostiene tutte le multinazionali penalizzando le piccole e medie imprese, fa-cendole fallire. D. Esiste un’organizzazione nazionale dei gilet gialli? Qual è il ruolo degli ope-rai e delle loro organizzazioni in questo movimento? Come siete organizzati. R. Non esiste un’organizzazione nazionale centralizzata, è un movimento in un certo senso anarchico che si organizza sui territori. Per quanto riguarda gli operai che partecipano a questo movimento, riporto l’esempio della fabbrica in cui lavoro, la Renault: su 2.400 lavoratori gli aderenti ai gilet gialli sono cir-ca 800. Inoltre esiste un coordinamento nazionale dei sindacati dell’industria, cui non partecipano i riformisti favorevoli al governo Macron. D. Questa lotta si è radicalizzata sempre più, le manifestazioni continuano e ci sono stati molti arresti; cosa fa questo movimento per i compagni e i mani-festanti arrestati? R. Chi viene arrestato non è mai una sola persona, è sempre un gruppetto. Dopo gli arresti i gilet gialli si precipitano al commissariato locale assediando-lo e dopo il presidio di mezz’ora o un’ora la maggior parte viene liberata. Io stesso sono stato arrestato e poi liberato. D. Questa lotta che è partita per motivi economici, contro l’aumento del prez-zo del carburante, si è trasformata in una lotta politica contro il governo Ma-cron e le multinazionali; cosa pensi della decisione di una parte dei gilet gialli di presentarsi alle elezioni istituzionalizzando la lotta? R. Quelli che vogliono costituirsi in partito e presentarsi alle elezioni sono de-gli infiltrati. In questo momento il movimento si sta radicalizzando e quindi ci sono delle azioni di distruzione dei radar sulle strade, delle pompe di benzina, dei bancomat e oggi anche il sindacato Solidaires si presenterà in piazza a Parigi e sarà una giornata molto calda. D. Il movimento dei gilet gialli ha dimostrato a tutta l’Europa che con la lotta radicale è possibile ottenere, anche se finora solo in parte, dei risultati. Il vo-stro obiettivo si limita a cambiare il governo Macron, a ottenere un salario di-gnitoso e la patrimoniale che Macron ha abolito o vi ponete l’obiettivo di cambiare la società? R. L’obiettivo principale che ci poniamo è quello di far cadere il governo fran-cese, il nemico di classe. Certo che sarebbe un’ottima cosa se il movimento dei gilet gialli si estendesse in Europa e contro le istituzioni europee che han-no l’obiettivo di abbassare i salari facendoli precipitare, portando i nostri sala-ri ai livelli della Romania, della Polonia ecc. In Belgio il movimento dei gilet gialli è abbastanza cresciuto, ci sono già delle frange anche in Inghilterra e quindi l’auspicio sarebbe quello di dilagare in tutta Europa. D. Perché avete deciso di caratterizzare questo movimento con i gilet gialli? R. In Francia è tradizione del movimento operaio, ad esempio fra i vari sinda-cati, ma anche di altri settori di massa, di caratterizzarsi con casacche di di-verso colore. Dato il carattere del movimento che vede scendere in lotta in-sieme frazioni di classi diverse è stato scelto il giallo perché è un colore neu-tro. D. Grazie dell’intervista a "nuova unità". La vostra lotta contro le multinazio-nali e il governo è anche la nostra lotta, la lotta degli operai italiani e di tutto il mondo, perché abbiamo un obiettivo comune che è quello di cambiare que-sto sistema basato sullo sfruttamento capitalista dell’uomo sull’uomo. (Intervista rilasciata la mattina del 16 marzo 2019)
gennaio 2019 redazione
intervista Eduardo Barranco
"La guerra che c'è adesso è quella con i mezzi di comunicazione in campo" Daniela Trollio * Il 26 gennaio scorso, davanti al Consolato della Repubblica Bolivariana del Venezuela di Milano, più di un centinaio di persone hanno partecipato ad un presidio di solidarietà organizzato dal Comitato contro la Guerra, cui hanno aderito varie organizzazioni. Al termine abbiamo potuto intervistare Eduardo Barranco, 2° console generale del Venezuela a Milano Vorremmo sapere com'è organizzato, in questi giorni, il popolo venezuelano, il popolo bolivariano. Ci sono comitati per la difesa della Rivoluzione? Noi in Venezuela apparteniamo al Partito Socialista Unico del Venezuela; poi il comandante Chàvez, nei suoi ultimi anni, creò la figura delle Comuni. Le Comuni sono piccole organizzazioni, all'interno delle grandi città esistono molte Comuni. La Comune può essere l'organizzazione di un piccolo settore; nella città di Milano, ad esempio, potrebbero esserci 400 Comuni, tanto per fare un numero. Il Partito Socialista è all'interno delle Comuni, che controllano, nella loro area, qualsiasi movimento sospetto, che può andare contro la stabilità del governo del Venezuela, e sono informate in modo immediato di qualsiasi anomalia. Quando il Presidente Maduro stava facendo un discorso nell'Avenida Bolìvar, un drone si avvicinò al palco e scoppiò. Grazie alle Comuni, al fatto che avevano visto da dove era partito, la polizia ha potuto attivare la ricerca dei colpevoli e li ha arrestati tutti. In questo momento stiamo lavorando 24 ore su 24, per quello che si riferisce alla sicurezza. Ora, la guerra che c'è adesso è quella con i mezzi di comunicazione in campo. È una guerra in cui si sta cercando di "vendere" al mondo che il governo è già caduto, che è già finito. Perché? Perché gli Stati Uniti praticamente hanno già fatto tutto, l'unica cosa che gli manca è l'intervento militare, e l'hanno già minacciato. Per voi è molto importante la battaglia mediatica, in questo momento? Noi riconosciamo che hanno un grande vantaggio, perché i grandi mezzi di comunicazione obbediscono a quello che gli Stati Uniti ordinano ed è molto difficile competere. Per fortuna il comandante Chàvez lo capì molti anni fa e fondò un canale televisivo che si chiama Telesur, che copre tutta l'America del Sud e si vede negli Stati del sud degli USA. Naturalmente siamo riusciti a mantenere un poco l'equilibrio ma è anche vero che il livello di comunicazione che c'è negli Stati Uniti è molto, molto più elevato. Dieci anni fa praticamente tutta l'America Latina era socialista e loro sapevano che il Venezuela era il cuore, l'ancora forte, e l'hanno fatta finita col Cile, con l'Argentina, con l'Ecuador, al punto che il vice presidente del presidente Correa, Lenìn Moreno, vuole arrestare il presidente Correa. Immaginatevi dove siamo arrivati. È come se Maduro l'avesse fatto con Chàvez. Una cosa inconcepibile, incredibile. Ora loro sanno che la pedina più importante è in Venezuela. A parte questo, il mio paese è conosciuto per la ricchezza. A livello mondiale si sa che il Venezuela possiede la prima riserva di petrolio al mondo. Ma non c'è solo il petrolio, è la terza riserva mondiale di gas del mondo, l'ottava riserva di diamanti, la quinta riserva di oro del mondo e la prima riserva d'acqua dolce dell'America e la settima o l'ottava a livello mondiale di acqua dolce; cioè… un paese che non arriva ad un milione di chilometri quadrati con tante riserve naturali. Dimenticavo altre due cose: il coltan, un elemento utilizzato nell'elettronica e nelle comunicazioni e ora è ne stato scoperto un altro, che si chiama torio (v. nota 1): bene, il Venezuela ha la prima riserva del mondo di torio e la terza di coltan. È ovvio che vogliano prendersi il Venezuela. Non possono accusarci di avere armi di distruzione di massa come accusarono l'Iraq perché sono anni che dicono che siamo un paese alla fame. Il Venezuela ne aveva coscienza perché sapeva che cosa stava per succedere con gli Stati Uniti e con il suo sistema di difesa… aerei... il più grande del primo mondo. Sì, ci sono analisi - e sono così sfrontati che lo hanno persino pubblicato - che dicono che, di tutta la flotta che hanno, anche qualsiasi aereo può penetrare in Venezuela senza essere toccato dalla contraerea venezuelana che è eccellente; dicono che ne hanno almeno 800 operativi che potrebbero utilizzare in Venezuela. Bene, immaginate il seguente scenario: una notte 40, 50 aerei e 5.000 tonnellate di bombe per ogni aereo. Stiamo parlato di quasi 300, 400 mila tonnellate di bombe. Ora, che colpa ha il 40/50% della popolazione venezuelana che non è attivo in politica, che non è né di destra né di sinistra; che colpa ha la gente di sinistra per avere un'idea ed essere convinta che è la nostra migliore forma di vivere; che colpa hanno anche quelli di destra, che rischiano comunque che gli cada una bomba sul tetto di casa?! È una cosa folle, è la cosa più incredibile che abbiamo visto; e noi siamo così preoccupati, così nervosi perché sappiamo che se gli Stati Uniti lo fanno al Venezuela, lo possono fare a qualsiasi paese del mondo, a qualsiasi altro paese del mondo. E naturalmente tutta la popolazione civile è all'erta e anche, naturalmente gli organi di intelligence. Ma è impossibile credere che la mostruosità arrivi a questo livello Altra domanda: gli altri partiti di sinistra - ad esempio c'è un Partito Comunista - che ruolo giocano in questo momento? Il Venezuela ha un nome per l'unione di tutti i partiti di sinistra, che è Polo Patriottico. Il Polo Patriottico ha dato l'appoggio assoluto al Presidente Maduro, primo perché sanno che ciò stanno facendo è illegale e incostituzionale; per esempio alcuni ex candidati presidenziali di destra e dei due partiti del Venezuela che si chiamano Azione Democratica e il partito cristiano-sociale COPEI, l'ex candidato Fermìn ha detto pubblicamente che quello che l'Assemblea Nazionale, e che quel tipo (Guaidò, n.d.t.), stava facendo era illegale e dall'altra parte un altro ex candidato alle presidenziali, conosciuto in tutta America perché è un socialdemocratico, di destra, anche lui ha detto che ciò che stanno facendo non è legale, e si riferiva sia all'Assemblea Nazionale che al paese. Certo, perché le cose non sono solo personali, politiche, sono economiche e sono anche umanitarie. Questo Polo Patriottico, questa unione dei partiti di sinistra, è unito a fianco del Presidente Maduro in questo momento. La solidarietà internazionale è importante per voi? La solidarietà internazionale è importantissima, anche in relazione a quanto è successo nella riunione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU: i votanti si sono divisi perché Cina e Russia hanno bloccato gli Stati Uniti. Pensate quanto importanti sono diventati il Venezuela e questo problema a livello mondiale, due potenze mondiali come Russia e Cina si stanno unendo per fermare gli Stati Uniti … e anche, due giorni fa, alla richiesta di riconoscere un nuovo presunto ambasciatore del Venezuela, il presidente dell'Assemblea ha risposto "un momento, questo non è conforme alle procedure delle Nazioni Unite". È un esempio piccolo, ma non per questo meno importante. E anche nell'OEA (Organizzazione degli Stati Americani, n.d.t.) ci hanno provato, con un nuovo ambasciatore e un nuovo presidente, l'autoproclamato presidente ad interim Guaidò, ma non ci sono riusciti e dei 32 voti ne hanno avuto solo 14, neanche lì hanno avuto la capacità di farlo. Ultima domanda: è importante per voi la solidarietà di operai e lavoratori - che qui c'è, nonostante che governo, televisione, media e stampa parlino di un dittatore, di un Venezuela con il colpo di Stato? È sempre importante. Quando sono arrivato l'anno scorso in Italia, ho cominciato a guardare i mezzi di comunicazione, i giornali e ho capito che il Corriere della Sera è il più importante che si legge in Italia. Leggevo poco l'italiano ma c'era una rivista allegata che usciva la domenica e c'era un reportage contro il Venezuela molto negativo; qualche tempo dopo mi sono messo in contatto col mio ambasciatore, il dott. Isaias Rodriguez, una persona che fa politica da trent'anni, vado a trovarlo con la rivista e gli dico "Ambasciatore, che posizione ha preso lei riguardo al Corriere della Sera?". E lui mi risponde: "Barranco (Barranco è il mio nome), in Italia non esiste il diritto di replica. Qui possono scrivere che Barranco è un omicida e non permettono che tu dica che non lo sei". "Ma pagando…" "No, se tu gli chiedi quanto costa una pagina la domenica, ve la pago, ti dicono di no, che non gli interessa, che non te la vendono". Io mi sono detto: "Dio mio, che posizione così dura, in cui non c'è equilibrio", ma uno rispetta sempre il paese dove lavora. Io ho girato per un anno tutto il nord Italia, Venezia, Parma, Toscana, Livorno, Firenze e altre città che non ricordo e parlavo di Chàvez, di Maduro, del Venezuela, della Bolivia e sempre con persone e in luoghi di sinistra e l'appoggio degli italiani di sinistra è stato grandissimo e noi vi ringraziamo profondamente, di cuore, ma purtroppo mi ha sorpreso, negativamente, che la CGIL si sia pronunciata contro Maduro. Non ho capito il perché e non lo capisco adesso. Capisco i dirigenti, ma i lavoratori no. Note 1) Il torio è uno degli unici due significativi elementi che si trovano ancora radioattivi naturalmente in grandi quantità (l'altro è l'uranio). Si stima che il torio sia di circa tre o quattro volte più abbondante dell'uranio nella crosta terrestre. Si prevede che il torio possa essere in grado di sostituire l'uranio come combustibile nucleare nei reattori, ma finora ne sono stati costruiti solo pochi. * Intervista e traduzione di Daniela Trollio
11 ottobre 2018
Solidarietà militante alle compagne e ai compagni
Il 24 ottobre si terrà l'udienza probabilmente conclusiva del primo grado del processo a carico di 11 compagni per aver impedito un raduno di Forza Nuova alle Piagge il 6 dicembre 2014. I fascisti furono scortati e protetti dalla polizia mentre gli antifascisti furono prima brutalmente caricati da polizia e carabinieri e poi denunciati e processati con richieste da parte del PM che vanno da 1 anno e 6 mesi a 2 anni per i reati di resistenza aggravata, lesioni aggravate, porto di strumenti atti ad offendere ed adunata sediziosa. Oltre 15 anni di condanne. Chi pratica antifascismo è represso, mentre i fascisti sono protetti, dimostrando la loro funzionalità nel mantenimento e rafforzamento di un sistema basato su sfruttamento e repressione. I fascisti sono compatibili, sono il prodotto della società capitalistica in crisi e della sua politica che "gioca sulla paura" per giustificare la miseria che sta producendo; mentre la lotta antifascista è solidarietà di classe e internazionalista tra gli sfruttati e porta con sé il seme di una società nuova senza più guerre, discriminazioni e disuguaglianze e, quindi, non è compatibile. L’udienza cade in un momento in cui il clima politico determinato dal nuovo governo Salvini-Di Maio-Conte favorisce ulteriormente l'uscita dalle fogne di fascisti e razzisti. Incoraggiati da un ministro dell'interno che fa della “sicurezza” una guerra contro gli immigrati, contro chi occupa case o centri sociali, contro i proletari che protestano e lottano contro lo sfruttamento e le devastazioni ambientali. La loro “missione” è l’incremento della repressione e della paura, accelerare il processo di fascistizzazione dello Stato. Impuniti e garantiti i fascisti intensificano le loro attività criminali aggredendo quotidianamente i compagni e immigrati fino a sparargli contro. Ultima in ordine di tempo l'aggressione a Bari a margine di un corteo antifascista dove sono stati feriti alcuni manifestanti dai fascisti di Casapound. Ancora una volta, con questo processo viene dimostrato come l'Antifascismo militante sia represso dallo Stato e come siano del tutto strumentali gli appelli e la propaganda di chi, come fa il Pd e le forze ad esso collegate, si accorge ora del pericolo fascista invocando le forze di polizia e proprio quelle istituzioni che, dei fascisti sono complici e compiacenti, dopo aver lasciato sviluppare le varie organizzazioni dal MSI a Casapound, in nome di una presunta democrazia, che gli consente il diritto di esistere, di parlare, manifestare e aprire covi. Dopo aver favorito il processo di revisionismo storico sulla Resistenza, fino ad arrivare a proposte di pacificazione tra partigiani e repubblichini, con i ragazzi di Salò o la mistificazione sulle foibe, in nome della stabilità e dell'unità nazionale contro gli "opposti estremismi", e grazie a politiche sulla sicurezza come il decreto Minniti il PD, nei fatti, ha spianato la strada alla recrudescenza fascista e ad un’ulteriore stretta autoritaria e repressiva, La lotta antifascista è lotta di classe contro il sistema di sfruttamento capitalista che invece produce e alimenta il fascismo e la fascistizzazione dello Stato borghese. La mobilitazione di massa, la lotta e l'organizzazione sono gli unici mezzi per combattere e vincere. La solidarietà è nella lotta antifascista, è nello schierarsi senza distinguo al fianco di tutti i compagni e le compagne che per il loro impegno e protagonismo nel togliere agibilità ai fascisti e riaffermare le pratiche e i valori della Resistenza sono colpiti dalla repressione. La solidarietà è lotta antifascista; l’antifascismo è lotta di classe! Comitato comunista “Fosco Dinucci” c/o Redazione “nuova unità”, via R. Giuliani 160R- Firenze cocomtos@hotmail.it
gennaio 2013 redazione
crimini nazifascisti
h1 style="vertical-align: baseline"> Trieste senza memoria

Claudia Cernigoi

Non ci sono soldi per realizzare una Casa della Memoria come proposto da semplici cittadini antifascisti, né per l’Istituto di Storia del Movimento di Liberazione o la Sezione storica della Biblioteca nazionale slovena, né per riordinare gli archivi che raccolgono la storia della lotta di liberazione e le testimonianze dei crimini del nazifascismo. Né per assumere i ricercatori ed i curatori che potrebbero dedicarsi a questo lavoro

Nella Giornata della Memoria dei crimini del nazifascismo, dobbiamo purtroppo nuovamente constatare come questa memoria nella nostra città non riesca a trovare spazio. Parliamo dell’annosa vicenda dello stabile di via Cologna 6-8, nel quale ebbe sede, tra l’autunno del 1944 ed il 1° maggio del 1945, uno dei corpi di repressione più feroci che la nostra storia ha conosciuto: l’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, comandato dall’ispettore generale Giuseppe Gueli, ed il cui squadrone della morte era guidato dal commissario Gaetano Collotti. E “banda Collotti” era il nome con cui questo squadrone della morte era tristemente noto, non solo a Trieste, ma in tutta l’allora Venezia Giulia dove operava. Istituito come forza autonoma di polizia per la repressione antipartigiana nel 1942, operò rastrellamenti, violenze e torture efferate anche sui civili, deportazioni (solo nel periodo dal 24/2/43 al 7/9/43 furono internati per ordine di Gueli 1.793 “ribelli e parenti dei ribelli”: gli uomini a Cairo Montenotte, in provincia di Savona e le donne a Fraschette di Alatri, in provincia di Frosinone), esecuzioni sommarie; dopo l’8/9/43, in sinergia con i nazisti, continuò l’attività di repressione degli antifascisti, ma si prodigò anche nella ricerca degli Israeliti da rinchiudere in Risiera e poi inviare nei lager germanici, e spesso gli agenti e gli ufficiali si appropriavano dei loro beni (motivo per cui, ad esempio, furono arrestati dai nazisti due dirigenti che avevano fatto la cresta sui beni degli arrestati, invece di consegnarli integralmente agli occupatori).

Dall’estate del 1944 furono centinaia gli arrestati che passarono per le mani degli agenti dell’Ispettorato speciale, che in quel periodo si trasferì dalla vecchia sede di via Bellosguardo (una villa che era stata sequestrata alla famiglia israelita degli Arnstein, riparati negli Stati Uniti) alla caserma dei Carabinieri di via Cologna, dopo lo scioglimento dell’Arma voluto dalle autorità militari del Reich, da cui dipendevano le forze armate e di polizia locali.

Di almeno un centinaio di questi arrestati (partigiani e civili) si sa che hanno perso la vita, uccisi al momento dell’arresto o per la cosiddetta ley de fuga, internati in Risiera o nei campi nazisti dove persero la vita, condannati a morte e fucilati, alcuni (come l’anziano Mario Maovaz, corriere del Partito d’Azione, ed il giovane Bruno Kavcic, partigiano comunista), addirittura il 28 aprile 1945, quando già il torturatore Collotti era stato ucciso dai partigiani veneti che avevano fermato la fuga sua e dei suoi più fedeli accoliti.
Nelle celle di via Cologna furono rinchiusi centinaia di prigionieri, partigiani e civili, uomini, donne anche giovanissime, ragazzini, anziani; nelle stanze i prigionieri ven
ivano torturati selvaggiamente e ridotti in condizioni pietose, dalle finestre dello stabile si gettarono due prigionieri, uccidendosi, perché non sopportavano più le torture: una partigiana di Servola ed un aviere del CLN triestino.

Nel dicembre del 2010 abbiamo fatto un sopralluogo di memoria con alcuni ex detenuti, che rientrando nelle stanze che avevano visto la loro sofferenza, e ricostruendo l’inferno che avevano attraversato, ci hanno fatto conoscere un pezzo di storia infame della nostra città.
All’epoca la Provincia di Trieste, proprietaria dello stabile, lo aveva messo all’asta, per “fare cassa”. Noi avevamo raccolto un migliaio di firme chiedendo che lo stabile rimanesse di proprietà pubblica e diventasse una Casa della Memoria, dove raccogliere gli archivi degli istituti storici triestini, dare una sede alle associazioni dei partigiani e degli ex deportati, realizzare una biblioteca tematica ed una sala convegni, allestire una mostra che racconti la storia del fascismo e dell’antifascismo, dell’occupazione nazista e della Resistenza, che ricordi quanto costò, e quanto i suoi valori siano preziosi ancora oggi, la lotta per la libertà e la dignità dei popoli. Una struttura che possa servire sia agli storici che alla cittadinanza, con particolare riguardo alle giovani generazioni.

Nonostante la dichiarazione di interesse storico da parte del Ministero dei beni culturali, nonostante fosse stato nominato un Comitato scientifico per questo progetto, oggi nuovamente la Provincia ha messo all’asta via Cologna, perché, ci è stato detto, non ci sono soldi per realizzare una Casa della Memoria come avevamo proposto noi, semplici cittadini antifascisti, a volte anche cercando di forzare un po’ la mano alle organizzazioni che dovrebbero gestire, secondo la nostra idea, la struttura.
Non ci sono soldi per l’Istituto di Storia del Movimento di Liberazione, non ci sono soldi per la Sezione storica della Biblioteca nazionale slovena, non ci sono soldi per riordinare i loro archivi che raccolgono la storia della lotta di liberazione delle nostre terre assieme alle testimonianze dei crimini del nazifascismo, non ci sono soldi per dare loro una sede decorosa, né per assumere i ricercatori ed i curatori che potrebbero dedicarsi a questo lavoro.
Dove una struttura del genere potrebbe essere gestita da un consorzio di Enti pubblici, dai Civici musei all’Università, con contributi europei (sono previsti per questo tipo di iniziative di memoria delle deportazioni e delle repressioni commesse dal nazifascismo) e la Regione potrebbe (se ha soldi da regalare alle associazioni di cui parleremo fra un po’) contribuire anch’essa per un progetto culturale che arricchirebbe tutta la città, sia in senso culturale che di posti di lavoro, dato potrebbero essere istituiti dei dottorati di ricerca in modo da dare lavoro a laureati precari o disoccupati, ed anche a personale di supporto per servizi di segreteria ed altro. Progetto nel quale potrebbe trovare spazio anche il riordino dell’archivio del defunto professor Diego de Henriquez, i “diari”, le fotografie, i documenti ed i testi da lui lasciati alla città.
Ma di fronte alla chiusura della Provincia di Trieste, viene da pensare che i soldi che non si trovano sono quelli per la cultura antifascista, dato che ci sono altre strutture in città che godono di finanziamenti anche piuttosto cospicui. Pensiamo innanzitutto al cosiddetto Museo della civiltà fiumana, istriana e dalmata, che ha sede in un palazzo prestigioso completamente restaurato allo scopo, un museo che non ha nulla di scientifico, salvo un po’ di oggettistica etnografica, ma in compenso trasuda razzismo nei confronti di Sloveni e Croati, ed oltre a mistificare la storia con uno pseudo-elenco di “infoibati”, espone lo spaccato di una “finta foiba”, all’insegna del pessimo gusto più deteriore.
Eppure per questo museo i fondi si sono trovati e si trovano ancora, evidentemente, dato che senza finanziamenti non potrebbe sopravvivere.

Sempre a Trieste la Regione Friuli Venezia Giulia ha stanziato recentemente una serie di contributi ad associazioni varie, tra le quali troviamo: euro 210.000 all’Associazione profughi istriani e dalmati, euro 90.000 all’Istituto Regionale per la Cultura Istriana, euro 20.000 alla Lega Nazionale, euro 20.000 all’Associazione Novecento (quella che negli anni ha organizzato svariate iniziative con la presenza di ex nazisti e di neofascisti, ultima in ordine di tempo la presentazione del libro del neofascista Stefano Delle Chiaie, presentazione a cui alla direttrice del periodico “l’Alabarda” è stato “consigliato” di non insistere per assistervi, in quanto ritenuta persona non grata agli organizzatori, presente la créme de la créme della vecchia eversione fascista), euro 30.000 all’Associazione Panzarasa, il museo memoriale dei reduci della Decima Mas, peraltro gestito in collaborazione con la Novecento.
In totale fanno 370.000 euro: mica spiccioli, governatore Tondo. Quanti ne occorrerebbero per iniziare i lavori per sistemare via Cologna e dare una sede dignitosa agli archivi che abbiamo citato prima?

E non possiamo fare a meno di stigmatizzare come anche a Roma, dove il Museo della Resistenza di via Tasso è da anni a rischio chiusura per mancanza di fondi, il 1° febbraio “l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – Presidenza nazionale e Comitato provinciale di Roma –, la Società di Studi Fiumani e l’Associazione Nazionale Dalmata firmeranno il protocollo d’intesa con Roma Capitale che sigla la concessione di un immobile posto nel cuore del centro storico e in luogo di grande valenza artistico- architettonica, nei pressi dei Fori imperiali. L’atto avrà luogo nell’ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, che come ogni anno viene commemorato alla presenza delle più alte cariche civili e militari di Roma Capitale e della cospicua comunità degli Esuli residenti. La Casa del Ricordo ospiterà la sede di rappresentanza delle tre associazioni della Diaspora, nonché della Sede nazionale Anvgd, la quale conserva comunque la sua base operativa in Via Leopoldo Serra” (dal comunicato dell’Anvgd).


gennaio 2013 redazione
anniversario

Chi criminalizza Stalin?

 

La borghesia ha tutto l’interesse a criminalizzare Stalin per poter più facilmente demolire agli occhi dei proletari, che pagano sulla loro pelle la natura del capitalismo, qualsiasi ipotesi di riscatto e di rivoluzione sociale

Eraldo Mattarocci

A sessant'anni di distanza dalla sua morte, avvenuta il 5 marzo 1953, la figura di Stalin continua ad essere demonizzata ed attaccata dai borghesi appartenenti a tutte le correnti politiche, sia reazionarie che riformiste, i quali per lo più utilizzano argomenti forniti a suo tempo da Trotzkji ed agitati ancor oggi dai suoi seguaci. Si attacca Stalin per attaccare l'idea stessa di comunismo pretendendo di giudicare, con la pancia ben satolla, un movimento rivoluzionario di milioni di operai e di contadini che hanno avuto il coraggio di dare l'assalto al cielo tentando di costruire, secondi solo alla Comune di Parigi, uno Stato socialista.

Si parla di Stalin personalizzando uno scontro politico diretto da un partito, il Partito Comunista dell'Unione Sovietica, ben strutturato ed esperto nella lotta classe, anche in quella che si combatteva all'interno del Partito stesso, banalizzando la storia come se fosse possibile - di fronte a scelte strategiche quali potenziare l'industria pesante o l'industria leggera - non scontrarsi duramente per affermare la propria posizione.

L'operazione che viene fatta dall’apparato mediatico borghese è quella di ridurre la costruzione del socialismo ad una questione riguardante personalità diverse, per lo più distorte e nel caso di Stalin addirittura con tendenze criminali per giungere ad equiparare il comunismo con il nazismo. La borghesia ha tutto l’interesse a criminalizzare Stalin per poter più facilmente demolire agli occhi dei proletari, che pagano sulla loro pelle la natura del capitalismo, qualsiasi ipotesi di riscatto e di rivoluzione sociale.

A noi comunisti che, al contrario, perseguiamo l’obiettivo della società socialista come unica via d’uscita da questo sistema di oppressione e di sfruttamento interessa imparare dalla storia, dai successi e dagli errori di chi ci ha preceduto non per fare i giudici o i professorini ma per intervenire al meglio nella guerra di classe.

In questa ottica è importante valutare l'opera di Stalin e del Partito, la correttezza delle loro scelte in quel contesto storico e politico avendo ben chiaro che la rivoluzione non sta in schemi prefissati ma è un processo nel quale è necessario tenere conto di fattori inaspettati e spesso contradditori, con tempi e modi dettati dal processo stesso. È altrettanto importante spiegare e dimostrare ai lavoratori che tra il nazifascismo - ideologia che teorizza e pratica la disuguaglianza, l’oppressione e la discriminazione tra i popoli - ed il comunismo, portatore di ideali di eguaglianza e solidarietà tra i lavoratori di tutto il mondo non c’è mai stato, non c’è e non ci sarà mai alcun nesso possibile.

È consuetudine dei critici di Stalin decontestualizzare le scelte fatte dal Partito allo scopo di rendere ragionevoli e condivisibili i loro argomenti. Se noi, al contrario, collochiamo le stesse scelte nel loro contesto storico e politico vediamo che sono scelte assolutamente razionali e comprendiamo il motivo per cui il Partito le ha operate.

Il socialismo in un solo paese

Quasi tutti i maggiori marxisti del primo Novecento individuavano nella Germania, industrialmente sviluppata e con una classe operaia numerosa, il paese in cui per primo sarebbe scoppiata la rivoluzione socialista. La realtà si fece carico di smentire non il marxismo, ma quei “marxisti” che studiavano scolasticamente Marx ed Engels anziché utilizzare i loro insegnamenti per analizzare i processi sociali in corso: la rivoluzione che cambiò il secolo XX scoppiò in un paese feudale, con una classe operaia esigua ed un numero sterminato di contadini poveri ed analfabeti che solo la grande capacità teorica, pratica ed organizzativa di Lenin portò al potere. Questo dato di partenza estremamente negativo ha sicuramente condizionato lo sviluppo del sistema socialista sovietico e le valutazioni del Partito che, conscio di questa debolezza, vedeva il successo della rivoluzione in Germania come un fattore determinante per mantenere il potere e procedere più agevolmente, con l’apporto dell’industria e della tecnologia tedesca, alla trasformazione del paese.

Se i comunisti tedeschi avessero conseguito la vittoria anziché essere sterminati dal socialdemocratico Noske, la Storia, non solo sovietica, avrebbe preso un altro corso ma così non fu: la rivoluzione tedesca fu sconfitta e ai Bolscevichi non rimase altra strada che provare a costruire il Socialismo in un solo paese, sapendo che avrebbero pagato un prezzo elevatissimo.

Poiché una delle ricorrenti critiche a Stalin è appunto questa, sarebbe interessante sapere che cosa avrebbero fatto i suoi accusatori: avrebbero riportato il calendario a prima della rivoluzione? Si sarebbero scusati ed avrebbero dato il potere in mano ai menscevichi o ai cadetti, consegnandosi nelle mani della controrivoluzione?

La maggioranza del Partito fece l'unica scelta possibile e, contando sulla ricchezza morale e materiale dell'Unione Sovietica, procedette ancor più decisamente nella costruzione del socialismo, spingendo sull'acceleratore della collettivizzazione delle terre e sullo sviluppo dell'industria pesante. I risultati sono stati per decenni sotto gli occhi di tutti e ancora oggi, se si visita la Russia, è evidente la cesura tra l'epoca staliniana che, pur con errori che Stalin per primo riconobbe, riportava successi determinanti in quasi tutti i campi e il degrado successivo alla presa del potere da parte di Kruscev e dei suoi accoliti. Il palazzo del Partito al Cremlino, un obbrobrio di vetro e cemento voluto da Kruscev per celebrare il XX Congresso e costruito sulle macerie di un magnifico edificio storico distrutto appositamente, è ancora lì a testimoniare, anche dal punto di vista architettonico, la frattura tra l'epoca della rivoluzione e quella della controrivoluzione.

Il Patto Molotov-Ribbentrop

In maniera alquanto surreale una delle critiche rivolte a Stalin è quella di aver sottovalutato il rischio della guerra e dell’invasione nazista. In realtà già dagli atti del XVII Congresso del PCUS risulta venisse discussa l’ipotesi molto realistica di un’aggressione tedesca ai popoli slavi. Inoltre se si pensa che nel 1936 la Germania ed il Giappone firmarono un patto anticomintern, sottoscritto anche dall’Italia nel 1937 ma, soprattutto, che dal 17 luglio 1936 al 1° aprile 1939 si combatté la guerra civile spagnola cui l’URSS partecipò con 3000 uomini tra volontari (500), piloti ed istruttori militari non si capisce se chi sostiene che Stalin nutrisse illusioni in merito alla politica nazista sia più idiota o più in malafede. L’Unione Sovietica oltre agli uomini inviò in Spagna una quantità di materiale bellico (carri armati T-26, bombardieri Tupolev SB2, caccia I-15 e I-16) seconda solo a quella inviata dall’Italia a favore dei golpisti. Poiché era chiaro che la guerra civile spagnola si era trasformata nella prova generale della seconda guerra mondiale, la diplomazia sovietica si mosse a lungo per trovare un accordo con le democrazie borghesi per contenere il nazismo ma non ottenne risultati perché l’intenzione di Chamberlain, condivisa anche dai francesi, era quella di indirizzare la potenza bellica nazista contro l’URSS. Solo a questo punto Molotov e Ribbentrop firmarono il famigerato patto di non aggressione che stabiliva la divisione della Polonia tra le due potenze. Questo patto creò enormi problemi, politici e morali, ai partiti comunisti fratelli i cui militanti pagarono in prima persona questa scelta, giungendo addirittura come nel caso del PCF ad essere internati in campi di concentramento. Nondimeno oggi sappiamo, chiunque sia intellettualmente onesto sa, che questa scelta dolorosa permise al Partito di interporre ad ovest un cuscinetto territoriale tra le forze naziste ed il territorio dell’URSS e di acquistare tempo per procedere nella preparazione della guerra, aumentando la produzione di armi e spostando nel contempo le fabbriche ad oriente. È questo il periodo in cui si decise e si organizzò la guerra partigiana nei territori che si riteneva sarebbero stati occupati, coscienti del fatto che inizialmente l’Armata Rossa non sarebbe riuscita a fermare l’organizzatissimo esercito tedesco. La bandiera rossa che sventola a Berlino conclude questa Storia.

Stalin e la dittatura del proletariato

All’XI Congresso nel 1922 Giuseppe Stalin fu eletto Segretario Generale per la prima volta, carica che venne riconfermata fino alla sua morte. La sua longevità politica, insieme con il fatto che dagli scontri politici interni al Partito uscì quasi sempre vincitore, è uno degli argomenti che viene utilizzato dai suoi detrattori per definirlo un dittatore. In realtà Stalin ebbe la caratteristica, alquanto singolare per un dittatore, di convocare regolarmente e periodicamente Congressi che coinvolsero, ogni volta, milioni di iscritti al Partito ed in cui si discusse, come testimoniano gli atti dei Congressi stessi, di tutti i problemi che un partito al potere si trova ad affrontare, non solo la collettivizzazione delle terre e lo sviluppo dell’industria, ma anche i passaggi più spinosi e dolorosi delle epurazioni di massa e dei processi del 1938.

Poiché fino al XVIII Congresso che si svolse nel 1939 il PCUS mantenne tra un’assise e l’altra una cadenza inferiore ai due anni e mezzo, le posizioni politiche di Stalin furono largamente discusse e condivise dal corpo del Partito di conseguenza se di dittatura si trattò, e noi ne siamo convinti, non fu certo la dittatura di un singolo ma quella della classe operaia che esercitò il suo potere contro la borghesia, anche contro quella che si annidava dentro il Partito Comunista. Questa borghesia, più volte sconfitta, già nel primo dopoguerra rialzava la testa, attaccando Stalin proprio sulla conduzione della guerra. Al riguardo c’è una testimonianza importante in un libro stampato dal Museo della Resistenza di Leningrado che denuncia come la destra del Partito avesse azzerato, per indebolire la direzione staliniana, tutto il gruppo dirigente del Partito di Leningrado, quello stesso gruppo che aveva mantenuto la coesione della città nei tre anni di assedio. Questa lotta feroce che naturalmente non interessò solo Leningrado spiega come mai, per la prima volta nella storia del Partito, passarono ben tredici anni tra un congresso e l’altro (il XVIII Congresso nel 1939, il XIX Congresso nel 1952). Questo lasso di tempo è troppo lungo per essere giustificato solo dalla guerra, l’unica spiegazione plausibile è che i rapporti di forza tra le fazioni non avrebbero consentito la celebrazione di un congresso senza lacerazioni che, in piena guerra fredda, avrebbero avuto conseguenze disastrose. Quando finalmente nel 1952 fu convocato il XIX Congresso nell’intervento di Stalin si colse questa frattura ma l’attacco contro la destra non venne portato a fondo. Pochi mesi più tardi Stalin morì, pianto da milioni di proletari in tutto il mondo, e pochi anni dopo, nel 1956, al XX Congresso del PCUS il capo dei revisionisti Nikita Kruscev ne denunciò i crimini: il proletariato internazionale paga ancora oggi le conseguenze di quel tradimento.